Roma, 7 mar. (Labitalia) – Sono 433 mila le donne con figli in condizioni di inattività (280 mila) e occupate part-time (153 mila) che nel 2017 avrebbero potuto cambiare la propria posizione rispetto al mercato del lavoro se fossero stati adeguati i servizi per l’infanzia e per la gestione di persone non autosufficienti. I servizi citati sono non solo inadeguati, ma anche molto costosi rispetto alla media delle retribuzioni percepite. Osservando soltanto i grandi Comuni italiani, a Palermo quasi metà dell’intera platea di madri in età lavorativa (44,8%) si trova in questa condizione, mentre tale quota scende a poco più del 12,5% a Milano. È quanto fotografato nell’indagine dell’Osservatorio statistico dei consulenti del lavoro ‘Donne al lavoro: o inattive o part-time’ che, in occasione della Festa delle donne dell’8 marzo, ha analizzato i dati dell’occupazione femminile soffermandosi sulle cause che inducono le donne a scegliere il part-time o all’inattività e sulle retribuzioni di ingresso al momento dell’assunzione del lavoratore, mettendo a fuoco anche le pesanti conseguenze sul piano pensionistico derivanti da carriere discontinue o da tempi di lavoro ridotti.
Delle 433 mila mamme inattive o impiegate part-time, circa 381 mila (88%) lamentano la carenza di servizi rivolti all’infanzia o a entrambi, e 52 mila (12%) di servizi rivolti alle persone non autosufficienti. E mentre al Nord si osserva una maggiore insufficienza dei servizi per i bambini (91,1%) rispetto a quelli per gli anziani (8,9%), nel Mezzogiorno è maggiormente sentita la carenza di assistenza domiciliare per gli anziani (15,6%) rispetto a quella per i bambini (84,4%).
Stando ai dati forniti dall’Osservatorio, oltre il 50% delle assunzioni di lavoratrici donne in Italia è di tipo part-time: un dato che nel 2017 ha raggiunto il massimo storico (54,6%) rispetto al 2009 (47,1%). E le conseguenze si vedono direttamente già dalla prima busta paga. Infatti, nonostante l’assunzione di 2,8 milioni di donne nel 2017 (rispetto a 3,2 milioni di uomini), il 35,7% ha ricevuto uno stipendio mensile inferiore a 780 euro. Nella classe di reddito da 1.500 a 2.000 euro gli uomini sono il doppio delle donne, mentre per i redditi ancora più alti il rapporto è di 1 donna ogni 3 uomini.
Quanto alla posizione territoriale è il Molise, con il 46% delle donne assunte con uno stipendio inferiore alla soglia di povertà, a guidare la classifica seguito da Sardegna (45%), Abruzzo, Marche e Umbria con il 41%. Così ancor oggi le differenze salariali tra uomini e donne, specie al Sud e nel Centro Italia, sono evidenti. Nel 2017 queste ultime hanno avuto una retribuzione media da lavoro inferiore del 15,3% rispetto alla componente maschile. Un divario pari al 12,5% nelle classi di età più giovani, con una crescita massima del 20,4% per gli over 55. L’indagine si sofferma poi sulle cause del contratto di lavoro a tempo parziale per le lavoratrici donne: per la maggior parte dei casi ‘vittime’ di part-time involontario (1,8 milioni), una condizione nella maggior parte dovuta all’impossibilità di conciliare i tempi della maternità e della vita familiare con il lavoro. Il 40,9% delle mamme tra i 25 e i 49 anni è impiegata a tempo ridotto, contro il 26,3% delle donne senza figli. Mentre per i padri il lavoro part-time è una modalità residuale che in nessuna condizione supera il 10%. L’uso dell’orario ridotto ha conseguenze anche sul piano pensionistico.
Condizioni discontinue di lavoro e a tempo parziale non consentono, infatti, di alimentare in modo continuo le posizioni previdenziali utili all’accesso alla pensione di vecchiaia. Dai dati Inps sui beneficiari di pensioni in Italia è chiaro che, nonostante le donne beneficiarie di prestazioni pensionistiche siano 8,4 milioni (862 mila in più degli uomini), solo il 36,5% beneficia della pensione di vecchiaia – frutto della propria storia contributiva – contro il 64,2% degli uomini. Le donne, poi, laddove arrivino a percepire la sola pensione di vecchiaia, si vedono riconosciuto un assegno mensile inferiore di un terzo rispetto a quello degli uomini.
E per Rosario De Luca “rafforzare i servizi di assistenza per la cura dei figli o delle persone non autosufficienti è quanto mai essenziale”. “Potenziare tali prestazioni -continua- consentirebbe a tantissime donne di conciliare i tempi di lavoro con la cura della famiglia e di permettere ad un numero maggiore di donne di partecipare a pieno nel mondo del lavoro, in tutti i settori produttivi”. “Anche così il nostro Paese riuscirà ad uscire dalla crisi che ha coinvolto il mercato del lavoro che, negli ultimi dieci anni, ha perso 1,8 miliardi di ore di lavoro pari ad 1 milione di occupati a tempo pieno”, conclude.