Addio ad Antonio Del Donno. L’arte del Novecento perde un maestro

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in foto Antonio Del Donno nel suo studio, 2015

L’occhio di Leone, ideato dall’artista Giuseppe Leone, è un osservatorio sull’arte visiva che, attraverso gli scritti di critici ed operatori culturali, vuole offrire una lettura di quel che accade nel mondo dell’arte avanzando proposte e svolgendo indagini e analisi di rilievo nazionale e internazionale.

L’Occhio di Leone e Giuseppe Leone vogliono ricordare il maestro sannita Antonio Del Donno, all’indomani della sua scomparsa, attraverso le parole della nipote Azzurra Immediato. Una perdita in questo infausto 2020 che non placa la sua ferocia sul nostro tempo; Antonio Del Donno è stato un faro per l’arte e il suo insegnamento resterà intatto e vogliamo ricordarlo per le idee, la tenacia del suo fare arte che, come spesso abbiamo detto, è un legame imprescindibile tra logos e techné e come vera filosofia di vita.

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“Erano le 21.20 di ieri sera quando, parlando al telefono con i miei genitori, pensavamo al fatto che ricorressero i 10 anni dalla mia specializzazione in Storia dell’Arte. D’un tratto, la telefonata di Giuseppe Leone che, con il cuore pesante, mi ha notiziata della dipartita di Antonio Del Donno.
Per molti, Del Donno è stato un maestro, un grande artista della Transavanguardia che aveva deciso di non seguire certi percorsi per dedicarsi al rapporto con le generazioni dei più giovani, tenendo fede al ruolo del maestro.
Per me, Antonio Del Donno era uno Zio, un Del Donno appartenente alla famiglia di quei prozii che ricorrono spesso nei libri di Storia, Filosofia, Politica, Teologia e Letteratura italiane ed estere, un Del Donno che aveva scelto la strada dell’Arte per raccontare quelle verità che, scomode al Novecento, solo attraverso la pittura, il linguaggio concettuale e la fotografia, era riuscito a portare avanti con una lucidità onirica e lirica – sembra un paradosso ma non lo è – priva di pari. Un visionario, certamente, un uomo ed un artista che era riuscito ad anticipare geniali intuizioni per renderli eterne opere d’arte. Le sue opere campeggiano da sempre nella casa della mia famiglia ed erano in quella della Famiglia Del Donno dove ho trascorso infiniti giorni sino alla fine del secolo scorso. Ed una sua opera, da qualche anno, è sempre accanto alla mia scrivania bolognese, cosicché il suo pensiero è sempre stato con me, mentre lavoravo.
Disinteressato da sempre alla fama, non ha avuto il riconoscimento che avrebbe meritato, forse perché non gli interessava affatto. Aveva il piacere di conversare e affermare “io ho questo da dire sul mondo e sulla vita, ciò che ho sentito, ciò che provato ed ecco, lo racconto nelle mie opere”.
Quando sono entrata nello studio di Antonio Del Donno, la prima volta, da adulta, una delle sensazioni più profonde è stata quella di essere in contatto con il genio dell’intuizione, in foggia di umile ispirazione tradotta in poesia visiva e compositiva. Non c’era la costruzione di un personaggio, di fronte a me – pur essendo un mio zio, in quel momento era l’artista la persona che avevo davanti – erano progetti di una vita, un’intera epitome di idee, concetti, ricerche portate innanzi e sempre pronte a supportare una nuova sperimentazione, ancora con qualcosa da dire, a tutt’oggi. Ecco, la differenza tra lui ed altri. Del Donno non cerca i propri 15 minuti di celebrità.
Poi, qualche tempo dopo, ricevetti in dono suoi cataloghi, era l’inverno del 2017 e scoprii delle sue opere fotografiche, così poco note. Ai tempi, mi dilettavo parecchio con la fotografia e, per estrema congiunzione, fu lampante, nelle sue foto l’eco degli scatti che ero solita fare anche io, pur non avendo mai visto le sue fotografie. Ne restai folgorata, ne scrissi un pezzo che non ha mai visto la luce ed era giunto a lui, il quale, nell’agosto successivo, di nuovo nel suo studio, dopo aver letto le mie parole mi ringraziò per averlo capito così nel profondo.
Addio Zio, non credo ci sia un altrove, però so quel che lasci qui.
Grazie per avermi insegnato a guardare la realtà con occhi diversi”.

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Gennaio 2017

“Fuoco, elemento che traduce sulla materia il proprio marchio, come fosse metafora di un linguaggio che necessita di un segno più forte della parola, non sempre, quest’ultima, in grado di esser chiarificatrice sino in fondo”. Le lettere marchiate con il fuoco, da Antonio Del Donno, e che spesso giungono quale filiazione dei Vangeli, in particolare quello di Matteo, vanno oltre ciò che esse lasciano intravvedere. Pare quasi si tratti di una intuizione folgorante, un memento che attraverso l’elemento fuoco sia in grado di farsi strada e traccia nella memoria, nel futuro, varco per un percorso catartico complesso, irto ma scevro da ogni qualsivoglia lezione od esercizio di stile. La purezza del segno, la sincerità della parola, dvengono tramite per un approccio intimo e profondo, tanto per l’artista che per il fruitore.
Antonio Del Donno è noto, principalmente, per le sue opere pittoriche e scultoree, anche quando esse procedono secondo quel che può definirsi un missaggio dei due linguaggi e delle due forme. Laddove la pittura non basta più, ecco che interviene il segno, il gesto non pittorico, persino il marchio, quello del fuoco e quello che scalfisce la superficie, lignea o di tela, come a ricercare il senso più intimo ed essenziale del noumeno.
Tuttavia, Del Donno, nell’ambito della sua complessa e poliedrica ricerca artistica, ha osservato il mondo anche attraverso l’obiettivo della fotocamera, indagando il quotidiano secondo un sentire frammisto di presenze e assenze dell’umanità. Le sue fotografie, risalenti al quarantennio e oltre che va dagli anni Sessanta sino al 2006, mettono in luce spaccati di un universo quotidiano affrontato con sguardo attendo al dettaglio, al rigore geometrico, o alla sua esatta opposita, verità, che i manufatti dell’uomo, le sue intromissioni, hanno prodotto. Ogni scatto rappresenta ciò che l’artista ha visto oltre, oltre quanto esiste con un proprio ruolo ed una precipua funzione.
I binari che si traducono in intricate trame bianche e nere, oggetti dell’edilizia che paiono sostare in una eterna attesa e che improvvisano pattern del tutto involontari, ma che, incontrando il genius dell’artista Del Donno, finiscono per posporre la loro reale identità al fine di formare visioni altre, di nuova oggettività, in grado di formare un linguaggio scevro da significazioni sovrastrutturali e ponendosi, invece, quale baluardo di una differente ed originale cosmogonia. Tutto pare, dunque, farsi metafora di vita, ogni contrasto, ogni nuova intersezione di pieni e di vuoti, di luci ed ombre. Non inquadrature di paesaggi riconoscibili, tutt’altro; si tratta di un focus su una caratterizzazione, su quello che oserei definire il punctum in grado di traslarsi nella più profonda essenzialità del luogo e del dettaglio immortalato.
Ciononostante, in ogni foto, anche e soprattutto quelle che non vedono l’elemento umano quale soggetto attoriale centrale e fattuale, non esita ad emergere la profondità di un’anima che è quella di cui lo scatto è pervaso. Non si tratta, invero, di luoghi scevri da affezioni, bensì di dettagli che costruiscono un più ampio discorso narrativo che, però, non necessita affatto di una costruzione compositiva che debba avere una precisazione descrittiva. Non paesaggi, dunque, non reportages di luoghi del proprio vivere. Sguardi, piuttosto, che si sorprendono e che cercano nel passaggio dell’uomo quella traccia significativa, non sempre spiegabile, ma che ha la forza di una essenza. È il dettaglio, o meglio, l’insieme di dettagli a costruire un intero universo visibile, con una propria forza, che parla per immagini, senza sia necessario altro.
Il momento fruitivo si fa emulazione ontologica del gesto, in tal modo scorrono, una dopo l’altra, le visioni fotografiche di Antonio Del Donno, vicolo dopo vicolo, arco dopo arco, dettaglio dopo dettaglio. La storia e le storie si sovrappongono, si scalzano, si avvicinano e sorprendono, fintanto che l’obiettivo non scorge l’uomo, i suoi gesti più umili, quasi si trattasse di una visione ex ante delle opere afferenti alla sua poetica pittorica e scultorea, come se, nelle foto di questi uomini e queste donne, vi fosse l’origine umana della parabola concettuale e artistica di Del Donno, il quid epifanico.
Mediante gli sguardi, le espressioni dei protagonisti di quegli scatti, che la puntuale scelta del bianco e nero mira a rendere ancor più ficcanti e profondi, si apre, dinanzi all’osservatore, un mondo nuovo, limbo tra passato e presente, che è storia, ricordo, affezione, visione esperita e messa a disposizione di nuovi sguardi, di nuove interpretazioni, secondo quella generosità che appartiene all’uomo Antonio Del Donno e, naturalmente, all’artista.
Afflati di vite si celano nella decostruzione che Del Donno compie sul dato reale, sull’insieme dal quale trae forza il particolare, nell’ambito di una ricerca che indaga l’ignoto, l’inusuale, vera fonte dell’essenza esistenziale. Ogni dettaglio immortalato si rivela in grado di palesare narrazioni altre, identità che tessono trame anche labirintiche, mentre la sua Benevento cambiava, da un passato di cui restavano tracce antiche a linee che segnavano il sopraggiungere del progresso. Una dimensione che, tuttavia, ancor oggi è attuale, tanto negli scorci urbani, industriali, quanto nelle campagne che circondano la città, o nelle tradizioni secolari, come nella serie del 1975 dedicata ai Riti settennali di penitenza in onore dell’Assunta di Guardia Sanframondi. Negli scatti di Del Donno l’intensità di quei commoventi atti che gli uomini del Sannio compiono dall’epoca pagana, trova un’urgenza espressiva straordinaria, un lirismo che riflette la vocazione, la fede e il πάθος del dramma intimamente vissuto, in grado di sostituirsi a quella che potrebbe apparire una spettacolarizzazione del dolore.
Il tratto che accomuna l’opera e la poetica di Antonio Del Donno è proprio l’assenza di quello che si definisce un rumore di fondo, un atto d’arte urlato. Ogni lavoro che l’artista ha realizzato è sostenuto da un silenzio che è ontologico, attraente per la speculazione concettuale e filosofica e non per inutili costruzioni sovrastrutturali. Tale sentimento è tangibile nelle foto, nell’immediatismo con cui esse raccontano l’idea, l’espressione di un istante, quid generativo per una più ampia e complessa trattazione del proprio tempo.
“Questo è l’unico dialogo che esiste.
Le parole servono solo a compromettere ed alterare l’essenziale”.
Un’idea del maestro Antonio Del Donno in foggia di explicit a questo mio breve testo, che sia il modo per avvicinarsi, comprendere, indagare la poetica dell’artista, la ricchezza e la complessità della sua parabola antologica, il lirismo profondo della sua arte e delle sue idee.

in foto Antonio Del Donno, Non siate conformati a questo mondo, 2015
in foto Antonio Del Donno, Amatevi gli uni gli altri (G.V.15), 2017
in foto messaggio dell’artista ad Azzurra Immediato