Afghanistan, resta aperto il capitolo 11 Settembre

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In foto Khaled A. Zekriya
Anche se la situazione della guerra in Ucraina ha guadagnato la ribalta della politica internazionale, il caso afgano resta ancora di prima importanza per capire la politica internazionale contemporanea. A poco più vent’anni dall’11 settembre del 2001, i recenti sviluppi dello Stato afgano ci raccontano delle fondamentali trasformazioni dell’ordine internazionale oggi. Per discutere di questi processi tramite la viva voce dei protagonisti, presso la suggestiva location offerta dal Museo della Pace di Napoli si è tenuta, sotto patrocinio dell’Italian Institute for Future, il Center for European Futures, il Centro di Studi sull’Europa Contemporanea e la Fondazione Mediterraneo, una importante conferenza sull’Afghanistan, che cade – come notato in precedenza – vent’anni dopo il fatidico intervento della coalizione internazionale a guida Usa contro il regime dei Talebani e Al-Qaeda. Ospite d’onore della conferenza è stato l’Ambasciatore straordinario e plenipotenziario dell’Afghanistan in Italia, S. E. Khaled A. Zekriya. Colpisce una sua frase insita in una intervista visto che la notizia battuta dalle agenzie l’1 Agosto ci ha riportato indietro nel tempo.
“ Dopo la firma dell’accordo di Doha tra Stati Uniti e talebani è come l’ultimo  chiodo battuto nella bara della nostra Repubblica Democratica. Purtroppo, il ritiro unilaterale e irresponsabile degli Stati Uniti dall’Afghanistan ha portato alla sepoltura della bara della nostra Repubblica Democratica. La prossima cosa più inquietante della risposta del presidente Biden all’attuale crisi in Afghanistan è il modo in cui tende a trattarla come un fastidio che è stato ingiustamente imposto agli Stati Uniti piuttosto che come un serio problema morale, strategico e umanitario in cui hanno avuto un ruolo maggioritario per 40 anni. Credo fermamente che non solo le ambasciate afghane, ma anche il popolo dell’Afghanistan e molte nazioni si sentano distaccati e/o abbandonati dalle scelte unilaterali e dagli accordi secondari degli Stati Uniti. Sembra che gli Stati Uniti stiano ripetendo gli stessi errori della fine degli anni ’90, quando i Talebani 1.0 assunsero il potere in Afghanistan. Non so se ciò derivi dalla mancanza di memoria istituzionale degli Stati Uniti o dalle ambizioni della campagna presidenziale dell’amministrazione statunitense. Per quanto riguarda altri attori internazionali, sfortunatamente sembra che la maggior parte abbia seguito e seguirà l’approccio e le politiche statunitensi che affrontano l’attuale stallo afgano con i talebani e altre questioni internazionali in tutto il mondo.” Veniamo alla cronaca: 
 “Giustizia è fatta. Ayman Al-Zawahiri è morto. Era uno dei responsabili dell’11 Settembre ha seminato una scia di sangue americano”. Sì come detta l’editoriale della Repubblica è tutto vero. A confermare la notizia che negli anni i giornali avevano già dato numerose volte questa volta è stato il Presidente Joe Biden in persona, parlando alla nazione dalla Casa Bianca quando in America erano ormai le 19.30 di sera, l’1 e trenta di notte in Italia.  L’uomo di origini egiziane che aveva preso in mano le redini di al Qaeda dopo l’eliminazione di Osama Bin Laden – di cui ai tempi dell’attacco dell’11 Settembre era il luogotenente – era uno dei 22 terroristi più ricercati dagli Stati Uniti nel mondo con una taglia da 25 milioni di dollari sulla testa. Aveva 71 anni. La sua ultima apparizione ‘pubblica’ era stata in un video diffuso da Al Qaeda nel 20esimo anniversario degli attentati. «L’operazione di precisione è stata un successo» ha detto il presidente reclamando il suo ruolo di Commander-in-Chief. «Oggi siamo più sicuri in un mondo incerto. Lo avevo d’altronde promesso: non lascerò mai che l’Afghanistan si trasformi in un paradiso per terroristi».

Secondo le informazion fino ad ora diffuse Al-Zawahiri è stato ucciso a Kabul da un drone lanciato durante una operazione di antiterrorismo condotta con successo dall’intelligence americana, quasi certamente con l’aiuto di fonti pachistane, nella notte fra sabato 30 e domenica 31 Luglio, quando a Washington erano le 21.48 di sera e dall’altra parte del mondo già l’alba. Una missione delicata, svelano ai giornalisti fonti della Casa Bianca, condotta con estrema accuratezza, le cui basi erano state poste già qualche mese fa. «Lo avevamo individuato da tempo, e identificato anche la moglie e la figlia». Era infatti andato a vivere con la famiglia nella capitale, dove aveva fatto ritorno dopo anni in quell’Afghanistan dal quale si era tenuto lungamente lontano (quasi certamente nascondendosi fra i monti pakistani), dopo il ritiro degli americani un anno fa. «Lo abbiamo colpito mentre era in balcone. La sua famiglia era in altre aree della casa ed è rimasta illesa. Non sono state uccise altre persone», prosegue la fonte. Secondo il New York Times la residenza, in un ricco quartiere del centro di Kabul, era la residenza di un alto collaboratore del ministro dell’Interno talebano, Sirajuddin Haqqani. Oltre a President Biden, pochi erano a conoscenza di un’operazione di cui si era cominciato a discutere a maggio e le cui modalità sono state sviscerate in numerosi meeting, col presidente sempre a chiedere che fosse assicurata la sicurezza dei civili. La decisione di agire è stata infine presa lo scorso 25 Luglio, dopo aver analizzato attentamente pure le ricadute sulle relazioni con i talebani. Biden si è consultato con i principali consiglieri. E convintosi che l’eliminazione di Zawahiri darà effettivamente un colpo alla struttura di Al Qaeda, ha dato l’ok a procedere. Secondo fonti sul terreno, il terrorista è stato appunto l’unica vittima dell’attacco. Le autorità talebane, accorse sul posto, hanno rapidamente trasferito altrove i familiari superstiti. La prima reazione di Kabul è stata quella di condannare l’operazione, che, sostengono violerebbe l’accordo di Doha (quello appunto che delineò i termini del ritiro delle truppe americane). Secondo la loro interpretazione, agli americani erano stati esplicitamente vietati attacchi all’interno del paese. Washington però non concorda e assicura di essersi confrontata anche con i suoi esperti legali prima di agire L’ex chirurgo oculista (laureato in medicina è anche scrittore e autore di versi), già medico personale dello “sceicco del terrore” di cui condivideva l’ideologia estremista, era assurto ufficialmente a capo dell’organizzazione creata da Bin Laden l’8 giugno del 2011 subito dopo l’uccisione del capo, il 2 maggio 2011, ad opera di un commando di Navy Seal in un compound in Pakistan e da allora ha proseguito la propria ascesa nell’islam radicale. L’organizzazione da lui controllata, secondo un recente rapporto dell’Analytical Support and Sanctions delle Nazioni Unite, si è infatti nel frattempo espansa, diventando molto forte: radicandosi ormai pure nell’Africa settentrionale e orientale. Ultimamente Zawahiri ne teneva le fila appunto dall’Afghanistan, dove, sempre secondo il rapporto dell’Onu aveva fra l’altro avuto “un ruolo consultivo con i talebani durante i negoziati con gli Stati Uniti”.  Un elemento che contraddice nei fatti l’impegno preso dai Taliban con l’amministrazione Trump durante quelle trattative. Il radicamento di al Qaeda nel nord dell’Afghanistan era ben noto e secondo l’intelligence l’organizzazione si stava posizionando per soppiantare lo Stato Islamico nelle zone precedentemente controllate da questo nel tentativo di essere “nuovamente riconosciuto come gruppo leader della jihad globale”. Anche per questo la morte di Zawahiri va considerato un successo particolarmente importante da attribuire all’amministrazione Biden. Non è però certo finita. A prenderne il posto, è già pronto Saif al Adel, veterano di lunga data dell’organizzazione e braccio destro di Zawahiri. Insieme ad Abdal-Rahman al-Maghrebi, genero marocchino del terrorista ucciso, che negli anni ha già ricoperto ruoli particolarmente di alto livello all’interno di Al Qaeda.