Al di là dell’Iva

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in foto Annamaria Spina

di Annamaria Spina

Quando parliamo dell’ IVA (Imposta sul Valore Aggiunto), ci riferiamo a una delle invenzioni fiscali più rilevanti del Novecento. Nata in Francia negli anni’ 50 su impulso di Maurice Lauré, l’IVA si impose come strumento moderno per sostituire le vecchie imposte sulla “cifra d’affari”, che colpivano le transazioni in modo cumulativo, con effetti distorsivi lungo la catena produttiva. In pratica le vecchie imposte colpivano ogni passaggio commerciale, la stessa merce poteva essere tassata più volte lungo la filiera (dal produttore al grossista, dal grossista al dettagliante), provocando il cosiddetto effetto cascata, senza tener conto del “valore aggiunto”.

Con l’IVA, ciascuna impresa versa allo Stato l’imposta calcolata sulle proprie vendite ma può detrarre quella pagata sugli acquisti. In questo modo si tassa solo il valore aggiunto effettivamente generato a ogni passaggio, fino ad arrivare al consumo finale.

L’IVA ha garantito semplicità, neutralità e grande capacità di gettito, tanto da diffondersi in tutto il mondo, oggi più di 160 paesi l’adottano e in questo senso essa costituisce un vero e proprio linguaggio comune della fiscalità sui consumi. Tuttavia, l’aliquota non è uniforme, esistono Paesi con IVA minima al 5% (alcune province canadesi, Giappone per beni selezionati), altri con aliquote ordinarie tra il 20% e il 25% (Francia, Italia, Regno Unito), fino a valori superiori al 27% (Ungheria). Esistono inoltre regimi differenziati, aliquote ridotte per beni essenziali o servizi sociali, aliquote zero per export e settori specifici e sistemi complessi di esenzioni e detrazioni.

Questa diversità dimostra che, pur essendo uno strumento globale, l’IVA non è mai stata neutrale né identica ovunque, ogni Paese l’ha modulata secondo priorità politiche, sociali ed economiche, influenzando incentivi e comportamenti dei consumatori e delle imprese. L’IVA misura il valore economico che si genera a ogni fase della produzione o distribuzione, cioè la differenza tra il valore delle vendite e quello degli acquisti, ma non distingue la natura di quel valore, non considera se sia prodotto principalmente da lavoro umano, da capitale fisico o da algoritmi, conta solo l’importo monetario finale della transazione.
Questo limite diventa cruciale nell’economia contemporanea. Oggi, con l’aumento del ruolo delle tecnologie digitali e dell’intelligenza artificiale, il valore aggiunto può essere generato senza quasi alcun apporto umano diretto. L’IVA lo misura comunque come “valore economico”, ma non ne percepisce l’impatto sociale, ad esempio: la riduzione dell’occupazione; la concentrazione della ricchezza in poche piattaforme digitali; la scomparsa del contributo umano come fattore di produzione.
Nell’economia moderna, “l’automazione dei processi” assorbe quote crescenti di ricchezza e capacità produttiva, settori come cura, educazione, arte e artigianato continuano invece a fondarsi quasi interamente sul lavoro umano. Se l’imposta resta neutrale, il sistema fiscale tende ad incentivare l’automazione e a scoraggiare le attività ad alta intensità umana.
Su questi presupposti nasce, in me, l’idea di proporre una nuova misura: introdurre una fiscalità che valuti e premi il contributo umano alla creazione di valore. Chiamerò questa nuova potenziale imposta IVU – Imposta sul Valore Umano.
Viviamo in un’epoca in cui una parte crescente della ricchezza mondiale è prodotta da algoritmi, piattaforme digitali e intelligenze artificiali. È il paradosso del nostro tempo: la produttività cresce, ma la partecipazione umana diminuisce. Eppure, nessuna macchina crea empatia, nessun algoritmo genera fiducia. Il valore umano resta la vera energia rinnovabile del sistema economico.
L’idea è semplice: tassare il valore aggiunto in base alla quota di lavoro umano che lo ha generato.
Si partirebbe dal Valore Aggiunto (VA), cioè la differenza tra ricavi e acquisti intermedi,
si calcolerebbe poi la massa salariale (W), ossia salari e contributi direttamente attribuibili a quel valore, e da questo rapporto si definirebbe il coefficiente umano (CU).
Il risultato finale permetterebbe di applicare un’aliquota fiscale più bassa alle imprese con un’elevata componente di lavoro umano (CU vicino a 1). Al contrario, settori automatizzati o caratterizzati da rendite elevate (CU basso) pagherebbero l’aliquota piena.
Immaginiamo due imprese: una manifatturiera che impiega cinquanta persone e una piattaforma digitale che automatizza quasi tutto. Entrambe generano lo stesso fatturato, ma la prima distribuisce reddito, forma competenze, sostiene il territorio. L’IVU riconoscerebbe questa differenza, premiando chi produce valore economico e valore umano.
In questo modo, l’IVU diventerebbe una leva fiscale per correggere le distorsioni della tecnologia avanzata e sostenere chi investe nelle persone. Il gettito derivante potrebbe finanziare programmi di formazione continua, politiche di reimpiego e welfare aziendale, restituendo alla collettività ciò che nasce dal lavoro.
Dal punto di vista tecnico, l’IVU potrebbe adottare un meccanismo simile all’IVA: ogni fattura riporterebbe l’imposta e il coefficiente umano dell’emittente. L’impresa potrebbe detrarre l’IVU pagata sugli acquisti intermedi, evitando la tassazione a cascata. Le banche e le fintech potrebbero sviluppare strumenti digitali per certificare il CU, anticipare crediti IVU e finanziare progetti sociali legati al lavoro e alla formazione.
L’IVA misura il consumo, l’IVU misurerebbe la contribuzione umana alla crescita.
Molti Paesi già incentivano il lavoro e i settori socialmente strategici, attraverso bonus occupazionali o crediti d’imposta per la formazione. L’Italia, con l’IVU, potrebbe fare un passo in più: trasformare il valore umano in un parametro fiscale e reputazionale, riconosciuto dal mercato e dalle istituzioni.
Un sistema integrato di incentivi potrebbe: premiare le imprese con alta intensità di lavoro umano attraverso detrazioni e vantaggi fiscali; certificare la qualità del capitale umano, rendendola visibile a consumatori e investitori; collegare l’investimento nelle persone a corsie preferenziali per bandi, gare e fondi europei; creare un mercato dei crediti IVU, generando liquidità immediata e favorendo progetti di innovazione sociale.
In questo modo, l’IVU diventerebbe un circolo virtuoso: più si investe nelle persone, più si cresce economicamente, socialmente, culturalmente. La scelta etica diverrebbe strategia di leadership globale: un modo per restituire dignità al lavoro, visibilità al merito, e valore concreto alla responsabilità sociale.
In un’economia che misura tutto tranne l’essenziale, l’IVU ricorderebbe che la vera ricchezza non è la somma dei profitti, ma la qualità delle vite che li rendono possibili.
IVU… dall’imposta del Valore Umano nasce la vera economia del domani.