Al San Carlo torna Mozart: dal 23 in scena Così fan tutte con la regia di Chiara Muti, Dan Ettinger sul podio

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Torna in scena al Teatro di San Carlo da mercoledì 23 marzo alle ore 20 Così fan tutte di Wolfgang Amadeus Mozart nell’allestimento del Massimo napoletano per la regia di Chiara Muti, coprodotto con la Wiener Staatsoper. Sul podio, alla guida di Orchestra e Coro Dan Ettinger: un debutto al San Carlo il suo, dopo il successo di Carmen di Bizet diretta lo scorso anno in piazza del Plebiscito. Ettingerr ricoprirà il ruolo di direttore musicale del Teatro di San Carlo a partire dal 1° gennaio 2023.
Maestro del Coro è José Luis Basso. Scene e costumi sono firmati rispettivamente da Leila Fteita e Alessandro Lai.
In palcoscenico un cast d’eccezione: Fiordiligi avrà la voce di Mariangela Sicilia, Dorabella sarà interpretata da Serena Malfi, Alessio Arduini sarà Guglielmo, e Maxim Mironov Ferrando. Damiana Mizzi vestirà i panni di Despina e Poalo Bordogna quelli di Don Alfonso.
Sesto titolo in cartellone per la Stagione Lirica 21/22, Così fan tutte, sarà in scena per sei recite dal 23 marzo al 2 aprile.
Con Così fan tutte si apre un’intensa settimana dedicata a Mozart che comprende un concerto di arie eseguite da Rosa Feola con l’Orchestra diretta da Dan Ettinger sabato 26 marzo.
Nelle note di regia dello spettacolo Chiara Muti scrive: “Così Fan Tutte è il Dramma giocoso del Disincanto… Amiamo veramente o per gioco? E che cos’è veramente l’amore se non una scelta di tempo e di luogo… un caso…un incontro… In quest’Opera l’illusione è più reale della realtà stessa… e la scena immaginata è come una “Lanterna Magica” fatta di specchi che riflettono ciò che siamo nell’immaginario di chi ci sta intorno…È uno spazio della mente nel quale Aria e Acqua si riflettono in segno di eterno movimento… Metafora dei nostri umori … incostanti come gli elementi che ci governano… e le dodici figure che in scena interagiscono con i protagonisti Sono lo specchio delle emozioni passate e future… spettatori e attori al tempo stesso… Fantasmi Accondiscendenti degli Amanti che Furono e che saranno…Così Fan Tutte è un’opera metafisica! Una riflessione profonda sull’essenza del nostro essere…Noi Siamo attraverso lo sguardo degli altri…”.

Estratto dall’articolo di Paolo Gallarati (dal programma di sala)
Mozart e la parodia dell’artificio. Mozart, però, va oltre, guardando al gioco delle coppie da un altro piano che conferisce alle simmetrie incrociate della geometrica trama un significato inatteso. Rivelatore a questo proposito è il duetto del secondo atto: «Tra gli amplessi in pochi istanti» in cui Ferrando travestito sferra l’ultimo attacco a Fiordiligi, fidanzata di Guglielmo; lei sulle prime resiste, ma alla fine cede ed esce di scena, abbracciata al nuovo innamorato. Il libretto suggeriva al compositore una scena comica: Ferrando avrebbe potuto sdilinquirsi in esagerate galanterie, come aveva fatto assieme a Guglielmo, nelle volute baroccheggianti del Sestetto n. 13; oppure sbraitare di passione, simulando un dolore del tutto fittizio. La riuscita comica della scena sarebbe stata assicurata. Quanti finti suicidi d’amore nella storia del dramma giocoso, e uno nello stesso Finale I di Così fan tutte, potevano offrire a Mozart il suggerimento per un’altra, brillante variazione sul tema! Ma il duetto imbocca, invece, una strada del tutto diversa, trasformandosi in una grande scena d’amore.

 Non c’è bisogno di conoscere a menadito la grammatica dello stile mozartiano per individuare nel canto di Ferrando il conturbante vocabolario della passione: si vedano le sincopi («Ed intanto di dolore») che dilagano nella sua parte, ricordano quelle di Donna Anna nell’aria del primo atto del Don Giovanni (alle parole «che il padre mi tolse») e in questa forma ritmica, di due crome su tempo debole seguite da un valore più lungo, costituiscono un topos mozartiano dell’espressione passionale; la salita impervia nel registro acuto, con lungo arresto e rapida discesa di semicrome (Ferrando: «e se forza, oddio, non hai»; Donna Anna: «la chiede il tuo cor») e le calme progressioni ascendenti («questo cor tu ferirai») che Susanna aveva già impiegato in un momento di forte tensione patetico-emozionale nel Finale II delle Nozze di Figaro (alle parole «il brando prendete, | il paggio uccidete»). Fiordiligi risponde con un declamato melodico (« Son abbastanza | tormentata ed infelice!») in cui risuona già la voce del dolore intimissimo di Pamina, mentre un’eco anticipata del «Taminomein!», con la serica discesa di semicrome, affiora nel larghetto «Volgi a me pietoso il ciglio».

Questo scoppio di passione, quest’oasi di sincerità, sorprendente nella trama della geometrica opera buffa, che pareva sinora esaurirsi in un raffinatissimo e crudele gioco della menzogna, spiazza improvvisamente i destinatari del misogino exemplum fictum. “Così fan tutte” diventa, attraverso la musica, “così fan tutti”: anche gli uomini cedono, come le donne, al richiamo d’amore che la natura fa sentire con prepotenza, risvegliando non solo la voce dei sensi, com’è scritto nel libretto di Da Ponte, ma le forze più trascinanti e coinvolgenti dell’attrazione esistenziale. E’ noto, infatti, come il sentimentale Ferrando e l’appassionata Fiordiligi trovino, nella seconda realtà del mascheramento, un’unione assai più autentica di quella che lega le coppie originarie di Ferrando con Dorabella e di Fiordiligi con Guglielmo; e come quest’ultimo, a sua volta, resti tutt’altro che indifferente all’abbandono amoroso con cui Dorabella accetta il dono del cuoricino, nel duetto più apertamente erotico che Mozart abbia mai scritto. Davvero, il focoso e gaudente bellimbusto trova nella fidanzata dell’amico la donna dei suoi desideri. Così il musicista supera in modo del tutto inatteso i limiti ideologicamente ben definiti del libretto di Da Ponte: la tolleranza espressa da Don Alfonso verso le debolezze femminili si allarga a tutto il genere umano nel riconoscimento della natura come forza trascinante che, attraverso l’amore, unisce o disgiunge le sorti degli individui.

     Ma se Così fan tutte non è, nella prospettiva di Mozart, una satira contro le donne che cosa è dunque? Proporrei a questo punto un’interpretazione diversa che trova riscontro in un preciso filone della cultura settecentesca cui Mozart era legato in maniera assai più forte di quanto comunemente non si rilevi: anzi, si può dire che vi si identificasse totalmente, facendone la ragione della sua vita e della sua arte.

Nel 1790 la polemica contro il travestimento artificioso della natura che aveva caratterizzato ad ogni livello l’epoca rococò, fissando il gusto aulico-galante della cultura di società, con tutte le sue degenerazioni grottesche nel comportamento, nella moda e nei costumi, era ben lungi dall’essersi esaurita. Di questo movimento, che si risolveva in una forte insofferenza antifrancese, Vienna era il centro propulsivo. L’imperatore Giuseppe II, campione di riforme illuminate che avevano come nucleo ideologico una russoviana riscossa della natura contro le distorsioni dell’artificio, si faceva ritrarre da Joseph Hickel (Vienna, Heeresgeschichtliches Museum) a capo scoperto, con una bianca redingote su pantaloni rossi e semplice spadino al fianco: niente parrucca e niente corona, secondo quel gusto per la semplicità, l’immediatezza dei modi e dei costumi che già nel 1766 gli faceva scrivere a sua madre, Maria Teresa: «Vousconnoissezma franchise et combien je suis sec et positif dans mesremerciements». Nel contesto storico, politico, culturale della Vienna giuseppina, dove molteplici energie d’ascendenza cosmopolita s’univano in uno slancio liberatorio dalle pastoie dell’ancien régime, Mozart aveva compiuto in sede teatrale l’atto più rivoluzionario che si potesse immaginare, trasformando l’opera in musica, considerata sostanzialmente da un secolo di cultura razionalista come un brillante gioco di palcoscenico (nonostante le sue componenti realistico-sentimentali) in un autentico quanto impensabile specchio della vita. Realismo psicologico e temporale, quindi, ossia ricostruzione analogica del flusso vitale che trova nella musica una seconda realtà: non più tipi ma uomini in carne ed ossa, non più rigide e ostentate simmetrie, segno del gioco astratto di palcoscenico ereditato dall’antica commedia dell’arte, ma una perfetta coincidenza tra la forma del discorso musicale, governata dall’equilibrio dello stile classico, e la scioltezza libera, imprevedibile, sovrana, dell’azione drammatica.   

     Date queste premesse, possiamo quindi veramente pensare che, dopo l’esperienza delle Nozze di Figaro e del Don Giovanni, l’adesione di Mozart alle razionalistiche simmetrie del libretto di Così fan tutte potesse avvenire come se nulla fosse successo? Per quale motivo Mozart doveva sentirsi tanto attratto dalla comica, elegante ma assai fatua burletta, piena di travestimenti improbabili, assurdi qui pro quo, nonché dotata d’un’azione burattinesca lontana dal vitalismo irrazionalistico della folle journée o dalla conturbante violenza del Don Giovanni? La spiegazione va cercata in un habitus mentale ed estetico che potrebbe sembrare un’arbitraria sovrapposizione al teatro di Mozart d’una categoria squisitamente moderna, ed era invece radicato nella cultura e nella mentalità dell’ambiente da cui nasce l’opera buffa viennese: quello del rifacimento e della parodia.

     L’ha notato con finezza Ettore Bonora quando, a proposito dei libretti di Casti ha scritto che in questi divertimenti […] più ancora della osservazione della realtà contò il compiacimento del letterato a riprendere o contraffare o parodiare i modelli che gli offriva la letteratura.

Quanto a Da Ponte, un esame della sua produzione librettistica compresa tra il 1784 e il 1789 rivela chiaramente alcune linee di tendenza abbastanza precise. Lavori come Il finto cieco, Il Demogorgone, Gli equivoci, Il Bertoldo, L’ape musicale portano assai chiari i tratti della farsa per il carattere meccanico ed eterodiretto della trama o per l’espressione di una comicità sfrenata, basata sulla convenzione di figure schematiche e sull’iperbole di un linguaggio portato al grottesco caricaturale. Altri libretti mirano alla maggiore complessità psicologica della commedia come Il burbero di buon cuore, Una cosa rara, Il ricco d’un giorno; altri ancora sono accomunati da un gusto diverso, di cui non è facile trovare riscontro nella precedente produzione comica italiana. Da Ponte imbocca qui la strada della parodia, applicata non ai difetti dell’opera seria o alle stravaganze della vita teatrale ma, in modo più nuovo e sottile, agli stereotipi di un genere drammatico, quello della favola pastorale di ambientazione arcadica, che alimentava nell’opera settecentesca il filone della serenata teatrale. E’ quanto accade nello splendido Arbore di Diana, in cui Carli Ballola ha ravvisato un corrispettivo drammatico di Così fan tutte9, e nel Pastor fido, dichiarato rifacimento del testo del Guarini

     Ora, se Le nozze di Figaro e il Don Giovanni, nella loro originalità ad ogni livello testuale (retorico, drammaturgico e letterario), possono riferirsi alla seconda categoria, quella della commedia realistica,  Così fan tutte, pur essendo tecnicamente affine agli altri due, rappresenta il culmine della terza. Qui lo straniamento parodico viene applicato ai meccanismi drammaturgici e psicologici della stessa opera buffa: non può spiegarsi altrimenti il singolare accumulo di stereotipi letterari e teatrali che Da Ponte esibisce nel più raffinato dei suoi prodotti, ammiccando evidentemente alla convenzionalità del genere qual era venuta stratificandosi nei decenni della sua evoluzione. Troviamo infatti: netta divisione della trama in 2+2+2 personaggi, insistenti simmetrie di battute per coppie contrapposte, citazioni letterarie, travestimenti, parodia dell’opera seria, parlar per sentenze, simulate agnizioni, latino maccheronico, la servetta mascherata da medico e da notaio, messinscene fittizie. Il tutto ambientato a Napoli, patria ideale del genere, ed oggettivato attraverso l’occhio di Don Alfonso che organizza l’“opera buffa” e la osserva dall’esterno con ironia traendo, di scena in scena, le conseguenze del caso. Alla luce della precedente produzione di Da Ponte non pare quindi azzardato intendere il progetto mozartiano di Così fan tutte come recupero consapevole di un sistema semiotico, quello, appunto, dell’opera buffa nella sua specificazione più artificiosa e farsesca, che i due artisti avevano già superato, anzi travolto, nel respiro vitalistico della grande commedia. Ritornare agli stereotipi letterari e drammaturgici dell’opera buffa di cui Mozart aveva avuto esperienza diretta nella Finta giardiniera (piena di legami, tra l’altro, con Così fan tutte), doveva quindi avere per loro un significato ben preciso come riferimento ad uno stato post quem: una sorta di mondo passato da guardarsi e da giudicarsi per l’entità dei suoi valori, o disvalori formali ed espressivi, estetici e morali. In questo rapporto, che non temo definire mediato, sta, a mio parere, tutta la complessità stilistica di Così fan tutte, la sua abilità nel giocare su piani diversi e interferenze di raffinatezza acrobatica.

     Davanti alle ostentate simmetrie del libretto, Mozart poteva anche divertirsi a eluderle o mascherarle, attraverso le infinite possibilità combinatorie della sua fantasia: invece fa di tutto per sottolinearle, aderendo in pieno allo schematismo della trama che ha, con ogni probabilità, accuratamente progettato in accordo con Da Ponte. Rispetto allo stile delle Nozze di Figaro e del Don Giovanni quello dei tre terzetti iniziali disorienta l’ascoltatore: solo Don Alfonso mantiene l’antica scioltezza ritmica e prosodica; Ferrando e Guglielmo, viceversa, cantano insieme gli stessi motivi regolari e simmetrici, come se parlassero per frasi fatte e gesti ripetitivi su cui la musica distende un sottile pigmento ironico. 

     Ma nel duetto delle due donne («Ah guarda, sorella») comprendiamo il senso di tutto questo. Simmetrie, ripetizioni, vaghi arabeschi che si rispondono, intrecciando in meravigliose ghirlande le voci e l’orchestra, rivelano il milieu da cui provengono: questo è il mondo tipico del rococò con il suo squisito miniaturismo, la simmetria della struttura e l’asimmetria dei particolari, le volute, le conchiglie, i riccioli e tutti gli archetipi formali del barocco in miniatura. Una piccola selva di squisitezze formali assedia, così, le due anime femminili che per districarvisi perdono in profondità e spessore. E qui sta il punto. A poco a poco la partitura ci conferma il sospetto generato in noi sin dalle prime scene: il mondo cui appartengono i burattineschi personaggi non è quello del Figaro e del Don Giovanni in cui tutto si esprime in forma diretta e naturale: Dorabella e Fiordiligi appartengono ad un altro sistema di comunicazione, dominato dall’affettazione artificiosa, dal travestimento estetizzante, dalla moda dei gesti e del comportamento che finisce per svuotare chi la segue di consistenza interiore, volgendo l’animo alla superficialità e inducendo la coscienza a scambiare il vero per falso e viceversa.

«Quante smorfie, | quante buffonerie!» esclama Don Alfonso dopo la svenevole scena degli addii. E conclude soddisfatto: 

Tanto meglio per me…

cadran più facilmente:

questa razza di gente è la più presta

a cangiarsi d’umore

fornendoci la spiegazione di tutta la vicenda: in questo sistema semiotico l’inganno del travestimento di Guglielmo e Ferrando diventa perfettamente credibile perché, in un mondo basato sull’affettazione, i confini tra finzione e realtà praticamente spariscono. La complimentosa leziosaggine con cui i due falsi albanesi trattano le ragazze suona per queste del tutto normale; i canti e i gesti smaccatamente lusinghevoli dei divertiti giovanotti (si veda ad esempio il Sestetto n. l3) fanno sorridere il pubblico, non Dorabella e Fiordiligi: esse li prendono per buoni, irretite come sono in un mondo in cui viene normalmente usato il medesimo codice espressivo, rischiosamente favorevole all’inganno ed all’equivoco.

     In questa prospettiva si comprende l’impiego degli stereotipi drammatici che dilagano nel libretto di Da Ponte, e che Mozart raccoglie con divertita ironia, facendo ricorso, nei luoghi deputati, al linguaggio tradizionale dell’opera buffa: schematismi prosodici, frasi simmetriche, rigidezza ritmica, regolarità fraseologica, imitazione onomatopeica di palpiti, sospiri, battiti del cuore e del polso, parodia dell’opera seria per indicare, nell’esagerazione retorica, la superficialità del sentimento, come avviene nell’aria “infuriata” di Dorabella («Smanie implacabili») e in quella “di paragone” di Fiordiligi («Come scoglio»), e così via. Tutti elementi che spirano un senso di voluto e ironico artificio, e che sembrano ammonire lo spettatore facendogli vedere, con divertita comicità, che cosa può succedere ai singoli in un mondo in cui la voce della natura è impedita dalle superfetazioni dell’estetismo, della decorazione e della moda. Quel mondo Mozart l’aveva ben conosciuto sin dall’infanzia, specie a Parigi, centro mondiale del lusso, da cui Leopold scriveva, senza l’ironia di cui era capace suo figlio, a Maria TheresiaHagenauer, il 1 febbraio 1764:

Non posso proprio dirle se le donne a Parigi siano belle, perché sono dipinte, contro natura, come delle bambole di Berchtesgaden, di modo che anche quelle che sarebbero naturalmente avvenenti, per questa antiestetica leziosaggine diventano insopportabili agli occhi di un tedesco per bene.

     La morale di Così fan tutte è di natura sociale e non misogina. Le strutture del dramma giocoso di tipo goldoniano, precedente lo sviluppo della grande commedia musicale, vengono consapevolmente reimpiegate per caratterizzare lo schematismo preordinato di una messinscena e rendere, con infallibile intuito stilistico, l’espressione della menzogna: la quale è comune sia agli uomini che alle donne, nascendo in entrambi dal medesimo ambiente e dall’abitudine ad esprimersi secondo le regole del rococò galante che ingabbia la natura, gli usi, i costumi e finisce per incidere sulla stessa profondità dei sentimenti. «Lasciate tali smorfie | del secolo passato» raccomanderà, senza grandi risultati, Don Alfonso nella scena quarta del secondo atto, ironizzando sulle moine delle due coppie.

  Di questo mondo, la coscienza filosofica è Despina. Per lei l’amore è «piacer, comodo, gusto | gioia, divertimento, | passatempo, allegria» (I, 13) in una società cinicamente fondata sull’inganno e sulla finzione, come ella stessa dichiara nelle sue due arie: l’importante per le donne è stare al gioco e ripagare le «mentite lacrime», i «fallaci sguardi», le «voci ingannevoli» e i «vezzi bugiardi» degli uomini con moneta uguale («senza arrossire | saper mentire; | e, qual regina | dall’alto soglio, | col ‘posso e voglio’ | farsi ubbidir»). Mozart la caratterizza musicalmente con pungente secchezza: Despina non conosce il calore affettivo che in Susanna era venuto ad animare la guizzante figurina della soubrette e in Zerlina aveva rinnovato, con un tocco di dolce sensualità, il ritratto, già stereotipo, della contadinella arcadica. L’amore che predica è piacere, non felicità, secondo la distinzione di Rousseau. Così il suo canto saltella nella prima aria («In uomini, in soldati») con ritmica asciuttezza, non conosce le suadenti morbidezze del legato e pesca nel sostrato popolaresco dell’opera buffa con una sorta di spiritoso automatismo. Ancora una volta, il riferimento al genere passato, colto nell’essenza tipica del suo vocabolario, rappresenta qualcosa di lontano e di distaccato che Mozart non condivide. 

     L’amore reclamizzato da Despina non è regressione edenica verso un paradiso di felicità perduta. E’ un programma illustrato da un personaggio che, non meno degli altri, appartiene al mondo del travestimento e della dissimulazione, sempre teso a parlar per sentenze in una posa che impedisce sostanzialmente allo spettatore di misurarne la sincerità. Anche a lei il sistema degli inganni gioca un brutto scherzo: per tutta la durata della burla non s’accorge minimamente che i due albanesi sono in realtà Guglielmo e Ferrando travestiti. E alla fine, quando ne ha la rivelazione, il suo canto s’abbandona ad una prosodia meccanica da opera  buffa, segno d’uno sgomento sottilmente agghiacciante: 

Io non so se questo è sogno:

mi confondo, mi vergogno.

Manco mal, se a me l’han fatta,

che a molt’altri anch’io la fo.

Guai se il direttore d’orchestra lascia naufragare queste parole sotto l’intreccio delle altre quattro voci: tutto il significato del demiurgico e tracotante personaggio, colto qui nell’attimo della sconfitta, va perduto.