Al Sud non si assumono i giovani perché all’Inps mancano i moduli

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Il cambio dell’euro col dollaro non aiuta. Troppo forte il primo, troppo debole il secondo. La moneta unica è al top della quotazione degli ultimi tre anni, è arrivata a sfondare 1,35. Ancora lo scorso anno molti avrebbero scommesso sulla parità, ma sulla scena politica internazionale ha fatto irruzione il ciclone Trump. Il presidente Usa, a Davos, a margine del World Economic Forum ha provato a buttare acqua sul fuoco: “Il dollaro diventerà sempre più forte e alla fine voglio vedere un dollaro forte”, ha dichiarato alla Cnbc. Ma pochi sono disposti a credergli. Smentito, peraltro, anche dai suoi, se è vero che appena qualche ora prima l’U.S. Secretary of the Treasury (il ministro del Tesoro di Washington) Steven Mnuchin, nella stessa circostanza, senza infingimenti, aveva notato che “la debolezza del biglietto verde è positiva per gli Stati Uniti”.
Dunque, nel primo meeting della Bce in questo nuovo anno, ha provato Mario Draghi ad alzare la voce: “Gli Usa mandano messaggi per indebolire il dollaro”, ha detto. E, però, mentre lo diceva la quotazione è schizzata in alto di oltre 150 pips, una figura e mezza, dicono gli addetti ai lavori, un punto e mezzo percentuale in pochi minuti.
Ma il Vecchio Continente e l’Italia, in particolare, che come si sa vive soprattutto di export, non deve fare i conti soltanto col cambio sfavorevole, c’è anche la minaccia dei dazi, insomma del protezionismo commerciale cui il presidente Usa non vuole assolutamente rinunciare. Anche a costo di prendersi uno sprezzante rimprovero dal cancelliere tedesco Angela Merkel: “Non ha imparato la lezione della storia”. Siamo, insomma, alla vigilia della nuova guerra dei tassi di cambio.
Ecco, basterebbe che i nostri politici riflettessero su questi aspetti per assumere, magari, in materia di Europa Unita un atteggiamento più serio, realistico e responsabile. Perché un fatto è certo: andrà pure ripensata e corretta in molti punti l’architettura istituzionale, ma l’Unione Europea conviene a tutti. Anche soltanto “per fare massa critica nel mondo globalizzato” si potrebbe direbbe, se non si corresse il rischi di banalizzare l’argomento.
Così come è certo che i problemi che assillano il popolo italico non ci vengono (non tutti, almeno) da Bruxelles o Strasburgo, ma da Roma innanzi tutto. Prendiamo le tasse, tanto per fare un esempio. La campagna elettorale ci ha insegnato un nuova parola: flat tax. Vale a dire, la tassa forfettaria che è alla base di un sistema fiscale proporzionale e non progressivo se non accompagnato da deduzioni o detrazioni. Nel qual caso – è evidente – anche se l’aliquota legale è costante, l’aliquota media è in ogni caso crescente.
Ma non entriamo nei tecnicismi, proviamo soltanto a mettere qualche punto al posto giusto. Un recente studio effettuato sulle dichiarazioni dei redditi, per esempio, certifica che le tasse, in Italia, le pagano i poveri e il ceto medio, mentre i ricchi la fanno franca. Esattamente il contrario di quanto avviene negli Stati Uniti o nella Germania. Non solo, sono più i Paesi con un peso del fisco inferiore al nostro che quelli con uno superiore. Dunque, l’aliquota unica non c’entra, peraltro è anche anticostituzionale.
Direttamente correlato alle tasse discende anche un’altra distorsione del nostro sistema. E cioè che i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, sicché stupisce non poco sentire la “casta” gridare al populismo per additare, magari con disprezzo, la protesta e lo scontento sempre più diffusi tra le classi medio-basse – si sarebbe detto un tempo – senza avvertire invece l’esigenza di comprenderne le ragioni. E il gap tra chi ha tanto e chi ha poco continua ad allargarsi, ammonisce una ricerca pubblicata da Oxfam su dati elaborati da Credit Suisse dal titolo assai significativo: “Ricompensare il lavoro, non la ricchezza”. Anche in Italia, infatti, la ricchezza nazionale è tutt’altro che suddivisa equamente tra le varie fasce della popolazione. Per intenderci: il 66% è detenuta dal 20% dei cittadini più ricchi, mentre la maggioranza delle persone (il 60%) ne possiede appena il 14,8%.
Infine, ma non ultime, due riflessioni. Sul lavoro, ovviamente, che non c’è (o è insufficiente) ma non per questo fa meno vittime. Anzi. Il rapporto in materia dell’Inail dice che nel 2017 ci sono stati più morti sul lavoro rispetto all’anno precedente (+1,1%). Le denunce di infortuni, va da sé, aumentano al nord mentre sono in calo al sud. E qui, al solito, non soltanto perché la disoccupazione è maggiore, ma anche perché – potendo e volendo – non si riesce ad assumere le persone, i particolare i giovani. Indispone non poco, per esempio, il fatto che a fronte di una contribuzione totale per gli under 35 assunti a tempo indeterminato, come previsto nell’ultima finanziaria, un imprenditore non può farlo perché, penate un po’, all’Inps mancano gli specifici moduli.
E poi ti danno anche del populista.