Andrà tutto bene

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Il popolo ha bisogno di spazio. E lo spazio che s’è conquistato è sui monti.
È di lunghezza un metro e ottanta, uno e cinquanta di profondità

B. Brecht

di Ugo Righi

La dinamicità del problema è negativa e se non si facesse nulla non ci sarebbe più nulla da fare.
“Andrà tutto bene” dice Gabrielino e lo comunica a tutti, con un sorriso di futuro.
Si, andrà tutto bene ma deve essere un progetto, non un destino.
Un progetto funziona se oltre che desiderare intensamente il risultato, si fanno cose per raggiungerlo.
Serve spazio fisico e mentale.
Occorre uno spazio progettuale che ora, in questo momento, coincide con la gestione intelligente del nostro spazio, per farlo essere “spazio vitale”.
“Stammi lontano se mi vuoi bene e se mi ami vattene”, questa è la paradossale ingiunzione di questi giorni.
Sono in fila al supermercato e lo spazio pubblico è fatto di corpi che ora sono distanti tra loro.
Il corpo dell’altro è pericoloso e invadente.
Ci si guarda per controllare i movimenti e i potenziali avvicinamenti come accade quando si guida una automobile.
Stiamo sperimentando, insieme ad altre dimensioni di vita tragiche e surreali, una prossemica insolita, in cui la grande prescrizione è quella della lontananza.
Lo spazio diventa comunicazione e prassi etica: non si deve invadere lo spazio.
Questo nemico invisibile e piccolissimo, il virus, cerca ospitalità per avvelenare e sconvolgere le certezze che avevamo facendoci precipitare in un abisso di insicurezza e di angoscia primordiale.
Lo spazio, e la sua percorribilità, diventa semaforico: verde se sei lontano rosso se ti avvicini.
Difficile non avvicinarsi, non toccarsi, non riempire di noi lo spazio, riempirlo in qualche modo di senso sociale e affettivo.
Questo è difficile per tutti anche se certamente di più a Napoli e meno a Zurigo.
Lo spazio ora diventa ambivalente e articolato, si allarga e si restringe: il mio spazio privato, quello affettivo, lo spazio sociale, il confine, la frontiera e l’orizzonte.
Ancor più inquietante è l’invisibilità, caratteristica che lo spazio e il virus hanno in comune: siamo “toccati dall’ignoto”.
Lo spazio del limite che ci limita, ma è il solo che se viene rispettato ora, ci permette di vedere l’orizzonte.
Lo spazio delimita, quindi è un contenitore.
Contiene noi che lo percorriamo.
Ma ora, ripeto, in questo momento, lo spazio è anche un contenuto per il senso che assume.
Credo che se, per forza, dobbiamo trovare qualche aspetto positivo in questa tragedia si possa pensare allo spazio, a come stiamo trattando questo mondo, lo spazio del mondo nei suoi aspetti macro e micro, come abitiamo i luoghi e della nostra brutale inconsapevolezza nel viverli.
Ora dobbiamo pensare allo spazio come distanza, ma tutto andrà bene nel momento in cui finalmente penseremo davvero allo spazio con amore e sapremo custodire i luoghi dove viviamo.
Occorre uno spazio mentale che elabori una prospettiva etica che consideri l’appartenenza non solo “far parte” del mondo ma la responsabilità di “averne parte”.
“Andrà bene” dice Gabrielino perché questo è un progetto!