“Andy is back”. Come dire: Warhol, il ritorno. Bene, grande attesa per un artista che ha avuto con Napoli un rapporto molto importante. La gigantografia della prima pagina del Mattino con la fatidica invocazione “Fate presto” , elaborata da Warhol a New York sulla base del materiale che Amelio gli aveva portato. Qualche tempo dopo “Vesuvius”, in cui i colori sgargianti dell’eruzione alludono allo stesso tempo all’incontenibile forza distruttrice del vulcano ma anche alla capacità rigeneratrice della natura. Con espressione da hard discount: tanta roba. Warhol genera aspettativa, e l’esposizione vuole raccontare l’artista non oltre quella superficie dietro la quale Andy stesso diceva “Dietro non c’è niente.
Io sono lì.” Il turista potrà anche avere il brivido di entrare in un ambiente che riproduce quello della Silver Factory newyorkese. Cosavuoidipiù s’interrogava una bella signora della pubblicità. Sulla carta c’è tutto: le opere, i colori e perfino lo studio dell’artista. Sulla carta. Gli oggetti annunciati sono tutti esposti, ovviamente. Una sala intera è dedicata alla Factory. I visitatori si guardano intorno attratti dal fluttuare dei cuscini argentati che pendono dal soffitto, leggono di non potersi accomodare sul divano al centro della sala, e sconcertati dopo un giro lungo le pareti passano nella sala successiva. Tante copertine di quei Long Playing di rockstars di varia età, e la stanza dedicata alle zuppe Campbells che Warhol seppe rendere mito. Piatto ricco mi ci ficco. Qualche filmato, e il giro finisce in quell’ingresso dov’era cominciato. Conclusione: materiale d’eccezionale interesse, poca emozione, autoidentificazione non pervenuta . Eppure Warhol riprendendo il linguaggio delle immagini ,dei mezzi di comunicazione di massa, del cinema, della pubblicità, indica il valore e il ruolo dell’interpretazione attraverso la comunicazione, che da quel momento diventa arte. Fare una mostra su Warhol significa comunicare un artista che è comunicazione. Il pubblico non deve necessariamente essere culturalmente strutturato, Può ignorare che il fotografo che decorò la Factory di New York, con stagnola e vernice argentata, volle in quell’argento un riferimento preciso all’uso di droghe, e che gli anni della Factory divennero noti come l’Età
d’argento per lo stile di vita che si conduceva all’interno. Una didattica proposta in modo da suscitare curiosità e voglia di approfondire è uno dei compiti di chi organizza la mostra.
Warhol creò la copertina del disco di debutto dei Velvet Underground di Lou Reed “The Velvet Underground & Nico”, l’iconica banana gialla (che poteva essere pelata, rivelando una ‘sorpresa’, e tantissimo altro. Usava l’interpretazione, e ne sapeva cogliere tutti i suoi frutti. Interpretava la società mitizzante che lo circondava, ed essendosi accorto che egli stesso si stava trasformando in ciò che tanto criticava, fu geniale nel riprodurre se stesso. Autointerpretazione. Perfetto. Per questo meritava un esposizione all’altezza del genio. La riproduzione della Factory, invece dei cuscini sospesi (che nella autentica neyorkese factory non c’erano), avrebbe potuto avere sul soffitto la proiezione dei video girati durante i momenti creativi o di festa, e i vinili con le copertine studiate dall’artista avrebbero potuto essere esposti con il sottofondo musicale dei loro brani più famosi. Sarebbe stata una notevole sollecitazione emotiva che avrebbe trascinato i visitatori all’interno della vita della Factory e del momento che Warhol ha rappresentato nell’arte. Non piccoli schermi ma filmati a tutta parete. Le opere su cavalletti o sospese al soffitto. Warhol si presta a tanto ed il suo genio avrebbe trovato piena sottolineatura con un esposizione interpretativa almeno quanto tutta la sua opera. La Factory era una sorta di grande palcoscenico dove veniva evidenziato e criticato il divismo del tempo. Se il proposito della mostra su Warhol è stato trascinare il visitatore nella sua visione rivoluzionaria, nella sua trasformazione in artista commerciale prima, ed artista del business poi con l’uso spudorato di una rivoluzionaria semplicità comunicativa, non si sarebbe dovuto a rinunciare a stimolare nel visitatore tutti e 5 i sensi di cui siamo dotati. Sarebbe stata l’esposizione rivoluzionaria di una rivoluzione.