Musei no open. Chiusi. Forse, magari un pochino, aperti a singhiozzo. Non si discute. Chiusi, serrati. La vera culla del contagio. Illi dixerunt. Illi: i nostri governanti e i loro consiglieri.
Per quanto si voglia considerare il successo di pubblico che i musei hanno avuto in questi ultimi anni, non è mai capitato ad occhio umano, toto orbe terrarum (scomodiamo pure gli antichi: è emergenza) di vedere pericolosi assetti d’assedio alle porte della più rinomata struttura espositiva. Eppure è sancito: nei musei si è in pericolo. Toccare le opere, annusarle e, magari presi dal desiderio di marcare il territorio, strofinarsi su di esse, può indurre il malvagio pallino spinato, amante del buio, dell’arte e di tutto quanto condisce la vita degli umani, a tendere pericolosi tranelli attaccandosi ai malcapitati visitatori e compromettendo irrimediabilmente la loro salute. Chiusi, i musei devono restare chiusi. -Dalli all’untore- si urlava nella Milano appestata del Manzoni, -Tagliategli la testa- era l’urlo isterico della regina di cuori di Lewis Carroll.
-Non vi permettete- ammoniscono i governanti col dito puntato verso ogni colpevole inadempiente.
Le regole sono regole certo, ma devono essere ampiamente giustificate affinché la gente le comprenda e le segua. Quando le ragioni sono poco consistenti, o addirittura imperscrutabili, allora scatta l’inosservanza. Qualcuno esce di casa, si allontana, va a respirare aria di mare e qualcuno, esasperato prende il caffè all’interno del bar, sale su autobus pieni al limite della capienza consentita. Al museo, però, non si va. Non si può andare perché chiuso. Non si protesta per la loro chiusura e, solo in piccolissima percentuale, la gente si lascia guidare in visite virtuali. Qualcosa non funziona. Gli unici luoghi per la cui apertura la popolazione non leva un sospiro sono le strutture espositive.
Eppure sembrava che fossimo diventati un popolo di amanti dell’arte, i musei registravano numeri record di presenze.
Per dirla con Henri Hemlan: c’è qualcosa di strano in famiglia. Mentre per convincere la popolazione della necessità di stare a casa e non partecipare a feste, banchetti, luoghi di ritrovo e altro si è ricorsi a disegni, cartoni animati e piccoli grafici (con intere colonie di infami pallini si introducono senza scrupolo nei nasi e nelle bocche di imprudenti che senza protezioni si aggregano), non una vignetta, non un fumetto, non un filmato mostrano l’interno di un museo ed il rimbalzare dei pericolosi pallini da un visitatore all’altro. Indovinala grillo. Domanda: quale potenza di accelerazione dovrebbe possedere il pallino considerando che in un museo i visitatori stanno almeno ad un paio dimetri l’uno dall’altro. Ammesso poi, che un turista abbia la disgrazia, e la cattiva educazione, di starnutire addosso ad una statua o sul vetro di un quadro, l’unica a potersi ammalare sarebbe la statua oppure il quadro. Difficile da immaginare, nonostante l’ormai sconcertante vivere con tempi e modi da videogame. Obbligatorio ricordare che che nei musei le opere non si toccano e se casualmente ciò dovesse accadere tutti i sistemi d’allarme sarebbero istantaneamente azionati. C’è qualcosa di strano in famiglia. Difficile immaginare il museo quale luogo di contagio.
Una bella azienda di Reggio Emilia ha messo in produzione Agivir Culture. Non è un antivirale specifico per musei, non è una bacchetta magica: si tratta di una pellicola antivirale e antibatterica con la quale avvolgere le opere sanificando così gli ambienti che per la loro promiscuità sono da considerarsi pericolosi. Il pioniere di quest’uso è il museo Mart di Rovereto. Operazione non facile rivestire una statua, pensiamo solo al “Supplizio di Dirce” (il mirabile gruppo scultoreo nel quale i figli di Antiope, desiderosi di vendicare il trattamento da schiava riservato alla loro mamma dallo zio Dirce, lo hanno legato a un toro selvaggio): il mirabile gruppo è alto quattro metri con una base di nove metri quadri. Un pensiero fuggevole alla quantità di questo prodigioso materiale anti virus, che sarebbe necessario utilizzare in un Museo come il Mann. Il freddo calcolo del rapporto tra la superficie delle sale e reale frequentazione delle stesse, avrebbe, come in ogni altro museo, potuto rassicurare e garantire l’impossibilità del contagio. Diverso il ragionamento per le scuole nelle quali, avvolgendo con la pellicola sanificatrice i banchi, invece di trasformare le aule in un costoso quanto inutile parco giochi di bancoscontro, si sarebbe potuto raggiungere un buon livello di sanificazione degli arredi.
D.P.C.M. vari permettendo, una visita al Mart di Rovereto potrebbe comunque essere istruttiva sull’uso del materiale. La tecnologia serve, eccome. Il suo uso mirato e pratico ancora di più.