È delle città come dei sogni: tutto l’inimmaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra (Italo Calvino, Le città invisibili)
di Erika Basile
Arancia meccanica compie 50 anni. Il 19 dicembre 1971, veniva proiettato per la prima volta a New York e, in questi giorni, è tornato nelle sale in una versione restaurata in 4k. Ambientato in un futuro distopico, probabilmente in Inghilterra (anche se non viene mai svelato chiaramente), è tratto dal romanzo di Anthony Burgess e rappresenta una analisi cinica, e ancora attuale, della società e dell’uomo. Stanley Kubrick, attraverso un’architettura visiva e sonora straniante, dà forma a emozioni, paure e istinti primordiali, mostrandoci la violenza come elemento imprescindibile della natura umana e socialmente legittimata, se incanalata in binari istituzionali. Attraverso il continuo dialogo tra immagini e musica, sono accostati, in modo dissacrante, il brutto/la violenza e il bello/la musica (come l’arte in generale). Alex, il protagonista, mentre si abbandona alle sue fantasie morbose, ascolta il “Ludovico Van”. La Nona Sinfonia di Beethoven, il Guglielmo Tell e La gazza ladra di Rossini, il Funeral of Queen Mary di Purcell sono rielaborati dal sintetizzatore di Wendy Carlos, determinando prospettive di senso originali. Singin’ in the Rain, legata, nell’immaginario collettivo, alla leggerezza di Gene Kelly che danza felice sotto la pioggia, viene canticchiata da Malcolm McDowell, durante la scena di un violento stupro a casa dello scrittore Alexander, in una scena ispirata da un evento realmente accaduto a Burgess e sua moglie.
In tutto il film, la musica svolge il ruolo di coprotagonista. La struttura circolare del racconto restituisce l’idea di una società violenta che all’individuo non lascia altra scelta, se non la violenza. Essa viene declinata in ogni forma: fisica, psicologica, sessuale, politica ed è affiancata da una rappresentazione dell’erotismo basata sulla sottomissione della donna. Attraverso Alex conosciamo il mondo in cui vive: sul suo sguardo, fisso verso la profondità di campo, si apre la prima scena, che mostra immediatamente tutta la sua spregiudicatezza. Via via che la camera indietreggia, si amplia la prospettiva e vediamo i Drughi, il Korova milk bar, con statue di donne a grandezza naturale, a forma di tavolini o che dispensano il lattepiù (bevanda a base di droghe), e, infine, i suoi frequentatori. La percezione della realtà distopica è accentuata anche dal linguaggio usato da Alex e la sua banda, il nadsat, uno slang “infantile” elaborato da Burgess nel suo romanzo, mescolanza di inglese colloquiale, russo e vocaboli inventati. Quando il primo movimento della macchina da presa è completo, abbiamo già il quadro complessivo: il protagonista non è un’anomalia del sistema, ma risulta perfettamente integrato in esso. E lo si percepisce anche dallo stravolgimento dei simboli: il bianco, che rimanda tradizionalmente a un’idea di innocenza e purezza, diventa il colore delle uniformi usate dai Drughi ed è anche il colore del “latte rinforzato con qualche droguccia mescalina”, con cui la società nutre i suoi figli, pregiudicandone la crescita sana. Le scenografie degli interni contribuiscono a definire l’ambiente sociale: lo stile “futuristico” si abbina alla Pop art, con i suoi colori sgargianti e gli oggetti, che diventano simboli grotteschi del consumismo. I luoghi istituzionali, invece, come il carcere e la clinica, hanno uno stile più neutro, a sottolineare la loro immutabilità nel tempo e, quindi, la frattura profonda esistente tra governanti e governati. La droga e la musica svolgono la funzione di innesco della “ultraviolenza”, che non è una connotazione appartenente esclusivamente alle bande di teppisti, ma al contesto in cui sono calati, nella sua totalità.
La cerniera tra le due parti in cui si divide la narrazione è la “cura Ludovico”. Dopo aver ucciso una donna, Alex viene arrestato. Il punto di vista sulla storia comincia a cambiare. In carcere, conosce un prete cattolico e comincia a leggere la Bibbia, soffermandosi, però, sui passaggi più violenti: neppure la religione può evitare di fare i conti con la violenza, sembra voler dire Kubrick. Pur di tornare in libertà, accetta di sottoporsi a una cura sperimentale, ispirata alla psicologia comportamentale e alla teoria del riflesso condizionato di Pavlov: in una delle scene più inquietanti di tutta la storia del cinema, lo vediamo immobilizzato e con gli occhi tenuti forzatamente aperti.
Dopo avergli iniettato una droga che induce dolori e nausea, vengono proiettate su uno schermo immagini violente accompagnate dalla musica del suo amato Ludovico Van, aggiungendo un ulteriore elemento di tortura.
Kubrick affida la sua critica sociale verso i metodi di riabilitazione dello Stato alle parole del cappellano del carcere: “Egli cessa di fare il male, ma cessa anche di esercitare il libero arbitrio”. L’uomo, perciò, nel momento in cui vengono repressi i suoi impulsi, diventa un automa, “as queer as a clockwork orange”, perde la sua stessa identità e si trasforma in un fantoccio senza coscienza, i cui bisogni possono essere annullati per favorire il funzionamento dello Stato e del sistema produttivo. Prima della cura, viene rappresentata la ferocia di Alex, attraverso una vera e propria estetizzazione della violenza, anche per giustificare moralmente gli strumenti usati dal sistema punitivo. Tuttavia, nel momento in cui si riesce a entrare in empatia con il protagonista per ciò che è costretto a subire, si coglie appieno il senso profondo del film: “È necessario che l’uomo possa scegliere tra bene e male e che ci sia il caso in cui egli scelga il male. Privarlo di questa possibilità di scelta ‒ dice Kubrick ‒ significa renderlo qualcosa di inferiore all’umano, un’arancia meccanica appunto”. È evidente la critica di un certo sistema carcerario che vuole punire, invece di impegnarsi a veicolare la violenza in attività costruttive e a reintegrare nella società chi commette reati. Privato dei suoi istinti, Alex riacquista la libertà, ma nulla è più come prima. I genitori continuano a mostrarsi disinteressati e anaffettivi, tanto da averlo sostituito con un altro ragazzo e aver venduto il suo amato serpente (simbolo della castrazione avvenuta). Incapace di difendersi, sopporta passivamente la violenza degli altri: anche i Drughi, diventati poliziotti, possono sfogare la loro rabbia, ora legalmente, e lo fanno su di lui. Alexander, lo scrittore, invalido e vedovo, dopo aver perso la moglie in seguito allo stupro, lo soccorre, ma quando riconosce in lui l’aggressore, decide di vendicarsi: lo droga per carpire informazioni da usare contro il governo e poi lo tortura, costringendolo ad ascoltare la musica usata durante il trattamento, fino a indurlo al suicidio. In ospedale, sembra regredito a uno stadio infantile, gli effetti della cura sono scomparsi e risale in superficie la sua vera natura. Il cerchio si chiude, come in un “eterno ritorno”, quando il ministro, portavoce del governo criticato dalla stampa per la cura Ludovico, gli propone un incarico pubblico in cambio della sua collaborazione. La vera guarigione, quindi, consiste nel mettere l’ultraviolenza al servizio della comunità. Nell’ultima immagine, in un tripudio dionisiaco di sesso, musica e droga, Alex vagheggia il suo futuro, finalmente libero. Con profondo realismo, il regista mette di fronte a una realtà scomoda, che impone di interrogarsi sul concetto di libero arbitrio e sul confine tra la libertà individuale e l’esigenza dello Stato di tutelare l’ordine pubblico, ma soprattutto sulla vera natura dell’uomo: “Alex può essere visto come una creatura del subconscio. Egli è dentro tutti noi. Nella maggioranza dei casi, questo riconoscimento sembra portare a una specie di empatia da parte del pubblico, altre persone invece provano una sensazione di rabbia e di disagio. Questi spettatori non sono in grado di accettare quella parte di loro stessi che vedono rappresentata sullo schermo, quindi reagiscono con un sentimento di irritazione nei confronti del film. È un po’ come il re che uccide il messaggero che porta cattive notizie e premia invece quello che gliene porta di buone”. Che cosa accadrebbe se, liberi da ogni senso di colpa, potessimo agire senza temere che le nostre azioni siano scoperte e sanzionate? Come ci comporteremmo? Alex ci inquieta, perché è uno specchio attraverso cui vediamo la nostra immagine deformata. A distanza di mezzo secolo, la disumanizzazione, il senso di insicurezza, il controllo e la manipolazione delle coscienze attuati attraverso le nuove tecnologie, i media e i social networks, e, da due anni, anche la gabbia in cui ci sentiamo intrappolati, rendono sempre più realistici gli scenari prospettati dalla letteratura e dal cinema. La distopia è diventata, ora, la nostra realtà.