Bambini reclusi. L’infanzia tra le mura di un penitenziario

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Nascere e crescere chiusi dietro le sbarre: sono i figli neonati delle detenute nei carceri femminili italiani, a cui la legge permette di vivere coi propri figli all’interno della struttura fino al compimento dei tre anni. Non è un modo di dire, poiché il giorno stesso del compleanno il bambino viene prelevato dalla struttura dove vive con la madre e affidato ad altre cure, nella migliore delle ipotesi alla famiglia d’origine. Una vita, quella dei piccoli, modulata sulle dinamiche della detenzione adulta, con le stesse sbarre, gli stessi colori, i pochi spazi e il problema del superaffollamento. In Italia sono circa 100  bambini in queste condizioni. In alcuni casi sono ospitati in nido colorati, ma non tutte le strutture femminili riescono a garantire questi spazi. E così capita che un bambino debba crescere dietro le sbarre, scontando una pena che non ha commesso, a volte anche da solo, senza altri bambini. A questi piccoli si aggiungono quelli che ogni giorno entrano in carcere per far vita al genitore detenuto: 100 mila ogni anno in Italia, sottoposti a perquisizione prima di entrare, proprio come gli adulti, e spesso sono costretti a incontrare il genitore in spazi grigi, chiusi. Tutto previsto dall’ordinamento penitenziario del 1975, mentre una legge che dispone diversamente esiste, ed è la legge 62 dell’aprile 2011 che introduce due alternative alla detenzione per questi bambini. La prima di queste opzioni sono gli Icam (Istituti a custodia attenuata per detenute madri con prole fino a tre/sei anni) che sebbene siano carceri, a livello edilizio sono comunque più simili a una casa normale, anche se la donna vive la propria quotidianità da detenuta. La seconda alternativa al carcere vero e proprio sarebbero invece le famose case famiglia protette, che dovrebbero essere destinate a donne che non hanno la possibilità di ripristinare la normale convivenza con il figlio per mancanza di un domicilio. Il condizionale è d’obbligo, dal momento che a oggi di Icam ce ne sono solo due in tutta la penisola e di case famiglia protette nemmeno l’ombra. Eppure la legge del 2011 urla con le sue misure alternative che i bambini in carcere non devono starci. Chi nasce e cresce in detenzione soffre di gravi deprivazioni sensoriali. La vita di un minore in carcere è uno schiaffo ai suoi diritti, il mondo è visto dalle sbarre di un penitenziario tra urla, sofferenze, storie di vita non facili, colori spenti, giochi monotoni e in luoghi chiusi, angusti, a volte in stanze piccole, per motivi di spazi, mentre fuori c’è il sole, la vita, i parchi giochi e poco più oltre il mare. Il carcere non è il luogo dove poter essere madri, non è possibile gestire i propri figli, crescerli secondo criterio. I tempi, i modi, le compatibilità sono decisi altrove. E anche le esperienze significative, l’esplorazione del mondo, avvengono con altri. Come i volontari che operano in molti penitenziari, che nel fine settimana portano fuori dalle mura i piccoli, che aspettano con gioia queste giornate. Ma arrivano poi le angosce, la paura di non tornare più dalla mamma o quella di non uscire più. Le madri sbagliano ma i bambini ne pagano le conseguenze in ambienti inidonei all’infanzia e alla possibilità di essere madri. La legge c’è ed è quella del 2011 che pensa a luoghi senza sbarre, armi o divise. Possibili soluzioni che ad oggi sono ancora utopia in un paese che non guarda ai diritti dei più piccoli, negandogli un’infanzia serena, spensierata, ma fatta di celle, di ambienti piccoli, di spazi verdi inesistenti, con un impatto psicologico non indifferente: a questi bambini vengono negati gli affetti, l’amore dei familiari, la possibilità di socializzazione, ma ancora la possibilità di conoscere il mondo, la curiosità e la scoperta tipici dei primi anni di vita. La vita tra le sbarre per un bambino si traduce anche difficoltà di linguaggio, a volte imparano parole, gesti, atteggiamenti da adulti. Possono riscontrare difficoltà di inserimento in classi di bambini, possono essere iperattivi, sviluppare aggressività. Inoltre, l’istituto di pena spesso è l’elemento ostacolativo tra il bambino ed il genitore. L’istituto di pena non è il luogo adatto per un incontro, spesso sono gli assistenti sociali o anche il giudice a non concedere l’autorizzazione per un loro incontro, quando viene concesso, i bambini subiscono l’impatto con la realtà e vengono trattati dagli agenti come adulti, ritrovandosi nelle grandi stanze del parlatorio ad incontrare i loro genitori, senza privacy, senza possibilità di gioco.

Bambini a cui lo Stato deve garantire un’infanzia oltre le sbarre.

Maria Rosaria Mandiello