Banche, validi i contratti “monofirma”. Nulli se non consegnati al cliente

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di Valentino Vecchi, dottore commercialista

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n.898 del 16 gennaio 2018, si sono pronunciate sulla questione, assai dibattuta soprattutto nell’ultimo biennio, concernente la validità, ovvero l’invalidità, dei cosiddetti contratti “monofirma”, ossia di quelle schede negoziali esibite in giudizio dall’istituto di credito prive della propria sottoscrizione, ma recanti quella del cliente.
La pronuncia, assai attesa dagli addetti ai lavori, ha sancito l’efficacia negoziale dei contratti bancari “monofirma”, invertendo la rotta intrapresa dalla prima sezione civile della Suprema Corte con alcuni pronunciamenti emessi a decorrere dalla primavera del 2016 e sino a gennaio 2017.

Ma andiamo con ordine.
Nei giudizi intrapresi dai clienti nei confronti degli istituti di credito, la tesi di fondo sostenuta dall’attore (sia quale “correntista” che contesta l’illegittimo addebito di interessi e competenze, sia quale “risparmiatore/investitore” che lamenta la perdita dei propri capitali in operazioni di investimento – a proprio dire – inopinatamente consigliate dall’intermediario finanziario) è quasi sempre quella dell’inesistenza di un accordo contrattuale che legittimi l’operato della banca. La formulazione di tale tipo di eccezione pone generalmente in capo all’istituto di credito l’onere di dimostrare di aver operato nel rispetto di un valido contratto, prova da fornire mediante l’esibizione in giudizio della scheda negoziale. Sovente, tuttavia, il documento contrattuale prodotto in giudizio dall’istituto di credito, pur recando la sottoscrizione del cliente (che quindi si trova nell’impossibilità di affermare di non essere a conoscenza del relativo contenuto), risulta privo della sottoscrizione della banca stessa. Tale circostanza è stata eccepita dal cliente quale motivo di nullità della scheda negoziale per assenza di forma scritta – requisito imposto dalla disciplina di settore – e, dunque, per la mancata formazione del consenso tra le parti.

La prima sezione della Cassazione Civile, che nel 2012 (sentenza n.4564/2012) aveva risolto la questione affermando il principio secondo cui la produzione in giudizio del contratto, da parte di chi non lo ha sottoscritto, “realizza un valido equivalente della sottoscrizione mancante, purché la parte che ha sottoscritto non abbia in precedenza revocato il proprio consenso ovvero sia deceduta”, con alcune pronunce a cavallo tra il 2016 e il 2017 (5919/2016; 7068/2016; 8395/2016; 10331/2016; 10516/2016; 36/2017) aveva cambiato orientamento, sancendo l’invalidità del contratto privo della firma della banca.
La questione, attesa la sua estrema rilevanza, è stata rimessa alle Sezioni Unite, chiamate ad esprimersi – nello specifico – sulla validità ovvero invalidità di due operazioni di investimento contestate dal risparmiatore per l’assenza di forma scritta del contratto quadro, documento esibito in giudizio dalla banca con la sottoscrizione del cliente ma privo della propria.

Con la pronuncia in commento, i giudici ermellini hanno stabilito che “il requisito della forma scritta del contratto-quadro relativo ai servizi di investimento, disposto dal D.Lgs. 24 febbraio 1998, n.58, art.23, è rispettato ove sia redatto il contratto per iscritto e ne venga consegnata una copia al cliente, ed è sufficiente la sola sottoscrizione dell’investitore, non necessitando la sottoscrizione anche dell’intermediario, il cui consenso ben si può desumere alla stregua di comportamenti concludenti dallo stesso tenuti”.
A supporto della posizione assunta, la Corte ha osservato che “è difficilmente sostenibile che la sottoscrizione da parte del delegato della banca, volta che risulti provato l’accordo (avuto riguardo alla sottoscrizione dell’investitore, e, da parte della banca, alla consegna del documento negoziale, alla raccolta della firma del cliente ed all’esecuzione del contratto) e che vi sia stata la consegna della scrittura all’investitore, necessiti ai fini della validità del contratto-quadro”.

Nel percorso argomentativo seguito dalle SS.UU., due circostanze hanno assunto importanza dirimente.
La prima concerne l’avvenuta consegna al risparmiatore di una copia del contratto quadro, circostanza comprovata da specifica dichiarazione sottoscritta dal risparmiatore stesso.
La Corte, richiamando il dettato normativo (art.23 TUF) secondo cui “i contratti relativi alla prestazione di servizi di investimento e accessori sono redatti per iscritto e un esemplare è consegnato ai clienti” (disposizione normativa contemplata dall’art.117 TUB anche in tema di contratti bancari), ha osservato che “nell’art.23 t.u.f. si enfatizza la redazione per iscritto, e, per dato normativo chiaramente espresso, si considerano sullo stesso piano detta redazione e la consegna di un esemplare al cliente”. Il vincolo di forma imposto dal legislatore è stato definito dalla Corte di legittimità “composito, in quanto ci rientra, per specifico disposto normativo, anche la consegna del documento contrattuale”.

La Cassazione ha poi precisato che “il requisito della forma ex art. 1325 n.4 cod. civ. va inteso nella specie non in senso strutturale, ma funzionale, avuto riguardo alla finalità propria della normativa, ne consegue che il contratto-quadro deve essere redatto per iscritto, che per il suo perfezionamento deve essere sottoscritto dall’investitore, e che a questi deve essere consegnato un esemplare del contratto, potendo risultare il consenso della banca a mezzo dei comportamenti concludenti sopra esemplificativamente indicati”.
Orbene, appare chiaro, alla luce di quanto affermato dalle SS.UU., che se per considerare validamente redatto in forma scritta il documento contrattuale non risulti indispensabile la sottoscrizione della banca – il cui consenso può desumersi da comportamenti concludenti – requisito imprescindibile, a pena di nullità invocabile dal cliente, è l’avvenuta consegna del contratto (al cliente); circostanza – quest’ultima – non agevolmente dimostrabile dall’istituto di credito, se non espressamente indicata nella scrittura contrattuale medesima

Il secondo aspetto che merita una riflessione concerne la possibilità che, per fatti concludenti, possa ritenersi provata non soltanto l’instaurazione del rapporto ma anche l’applicazione delle condizioni economiche contrattualmente convenute tra le parti. Nel caso trattato dalla Corte, dall’esecuzione degli ordini di investimento/disinvestimento può certamente desumersi la volontà dell’intermediario di dare esecuzione al rapporto di intermediazione finanziaria. Tuttavia è notorio che i contratti, sia essi di intermediazione che di conto corrente, contemplino non soltanto la disciplina normativa ma pure quella economica dei rispettivi rapporti. Ebbene, specie con riferimento ad un contratto di conto corrente, c’è da chiedersi se la prova del raggiunto accordo per fatti concludenti debba riguardare soltanto l’instaurazione del rapporto ovvero anche l’applicazione delle clausole economiche così come specificamente convenute in contratto. Non sempre, difatti, sarebbe agevole – per l’istituto di credito – dimostrare, per fatti concludenti, il rispetto di specifiche condizioni economiche contemplate in un contratto bancario sottoscritto in epoca di gran lunga antecedente alla data di decorrenza degli estratti conto disponibili, atteso che sovente, dalla disamina della documentazione di natura contabile (estratti conto), si riscontra l’applicazione di condizioni difformi da quelle indicate in contratto. Sarebbe dunque sì provata l’instaurazione del rapporto che le parti hanno inteso stipulare nel contratto recante la sola sottoscrizione del cliente, ma non l’effettiva applicazione delle condizioni economiche nel medesimo contratto convenute. In sintesi, è possibile ritenere che il pronunciamento delle SS.UU., peraltro assai atteso, se da un lato ha sancito la validità dei contratti “monofirma”, dall’altro potrebbe rappresentare lo spunto per nuove contestazioni da parte dei clienti bancari.