Bene il Qe all’europea, ma dipende sempre dal dollaro

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A cura di Antonio Arricale Varato ufficialmente lunedì scorso, gli effetti del Quantitive easing (Qe) all’europea si sono già manifestati e continuano a dare segnali positivi sui mercati finanziari. Soprattutto sul A cura di Antonio Arricale Varato ufficialmente lunedì scorso, gli effetti del Quantitive easing (Qe) all’europea si sono già manifestati e continuano a dare segnali positivi sui mercati finanziari. Soprattutto sul fronte obbligazionario: lo spread tra il Btp e il bund si è portato ai livelli di aprile 2010. Anche i listini hanno festeggiato l’avvio del piano di acquisti di titoli di stato da parte della Banca centrale europea (Bce), registrando a metà settimana nuovi massimi storici. In questo clima, le prospettive per la zona euro rimangono improntate all’ottimismo. Anche i gestori danno fiducia alla ripresa europea, Italia compresa. La tendenza emerge dall’ultimo sondaggio mensile di Morningstar Italy condotto tra le principali società di investimento (tra il 1 e il 9 marzo) che operano in Italia a cui hanno partecipato 23 investitori professionali. Nel complesso, il Morningstar Italy Investment Sentiment index (Miisi), costruito sulla base delle probabilità attribuite a diversi scenari (mercati in salita, stabili o in discesa) su un orizzonte di sei mesi, mostra che gli intervistati sono convinti che le Borse del Vecchio continente faranno meglio di Wall Street e che l’euro continuerà ad indebolirsi nei confronti del biglietto verde. Certo fanno specie le parole del presidente della Bundesbank Jens Weidmann, il quale – come riporta Bloomberg – continua a sostenere imperterrito la sua posizione: “Il quantitative easing non era necessario. Resto convinto che la congiuntura attuale non giustifica questa misura” ha spiegato, aggiungendo che le banche centrali diventeranno ora i principali creditori. Ad ogni modo, il dibattito che intanto anima la dottrina, alla luce appunto degli effetti del Qe sul clima complessivo dell’economia e, soprattutto, con riguardo alla parità sempre più vicina del rapporto euro-dollaro, pone un interrogativo rispetto appunto al ruolo che la moneta statunitense è destinata, d’ora in poi, a ricoprire. Si parla infatti sempre più spesso di de-dollarizzazione, intendendo come tale quel processo secondo cui il biglietto verde starebbe perdendo il suo status di valuta di riferimento numero uno al mondo. Ma è proprio così? A quanto pare, non proprio. In un’opinione pubblicata sul Telegraph da Ambrose Evans-Pritchard, infatti, si fa riferimento a un altro report che dice invece esattamente il contrario. “Global dollar credit: links to US monetary policy and leverage”, è il titolo molto indicative di qust’articolo in cui viene sostenuto, appunto, che “la politica di tassi a zero della Fed e il QE abbiano inondato i mercati emergenti di liquidità in dollari negli anni del boom”, e come “questa abbondanza abbia portato le aziende asiatiche e dell’America Latina a contrarre prestiti come mai prima in dollari, a tassi reali vicini all’1%”. Dunque, gli effetti di questa dipendenza si comprenderanno a pieno soltanto ora che il ciclo monetario della Fed è sul punto di cambiare rotta, invertendo cioè da espansiva a restrittiva. “Contrariamente al pensare comune, il mondo oggi è più dollarizzato che mai. Gli stranieri hanno preso in prestito $9 trilioni in valuta Usa al di fuori della giurisdizione americana, dunque senza la protezione di un prestatore di ultima istanza che sia capace di emettere dollari illimitati in extremis. E il valore è in progressiva crescita dai $2 trilioni nel 2000”, si legge nell’articolo. Di questo ammontare, la quota dei mercati emergenti coinvolti – principalmente asiatici – è raddoppiata a $4,5 trilioni dalla crisi di Lehman, compresi tutta una serie di prestiti camuffati attraverso banche registrate a Londra, Zurigo e Isole Cayman. Il risultato è che il sistema globale del credito è molto sensibile a qualsiasi cambiamento delle politiche della Fed. Basti pensare che l’indice del dollaro è balzato a +24% dallo scorso luglio e a +40% dalla metà del 2011. “Si tratta di un rally molto superiore e più ripido rispetto a quello della metà degli anni Novanta, anche in quel caso causato dalla ripresa degli Stati Uniti in un momento di debolezza europea, e dal rialzo dei tassi della Fed, che diede il via alla crisi asiatica e al default della Russia nel 1998”. Per concludere, il mondo si basa sullo stardand del dollaro, non su quello dell’euro o dello yen, sicché monitorare la Fed resta, in ogni caso, la cosa più importante da fare nel mercato valutario. E non solo. Borse asiatiche Borse asiatiche positive in chiusura di settimana. I l Nikkei ha chiuso le contrattazione ben sopra i 19000 punti mettendo a segno un rialzo dell’1,39%. Bene anche Seoul che ha guadagnato lo 0,77% mentre Hong Kong avanza dello 0,2% e Shanghai dello 0,7%. Gli acquisti sono arrivati in scia al dato statunitense sulle vendite al dettaglio, apparso inferiore alle attese, circostanza che sembra aver allontanato il rischio di un imminente rialzo dei tassi di interesse da parte della Fed. Restando in ambito macroeconomico da segnalare che la produzione industriale del Sol Levante è cresciuta del 3,7% in gennaio su base mensile (dato rivisto al ribasso dal 4% della lettura preliminare) dopo il progresso dello 0,8% segnato in dicembre (+0,5% in novembre) e contro il 4% di aumento atteso dagli economisti. Secondo la lettura finale diffusa dal ministero nipponico di Economia, Commercio e Industria, su base annuale il dato ha fatto registrare un declino del 2,8% dopo il guadagno dello 0,1% (pri mo aumento in tre mesi) di dicembre. Sempre in Giappone il tasso di utilizzo degli impianti è cresciuto in gennaio su base mensile del 3,6% dopo il progresso del 2,0% registrato in dicembre (-0,8% in novembre). Secondo i dati comunicati dalla People’s Bank of China invece in febbraio le banche cinesi hanno erogato prestiti per 1.020 miliardi di yuan (154 miliardi di euro), contro attese degli economisti per 750 miliardi (113 miliardi di euro). Il dato è comunque inferiore ai 1.470 miliardi di gennaio (222 miliardi di euro). La massa monetaria M2 è cresciuta del 12,5% in febbraio rispetto allo stesso mese del 2014, contro il 10,8% segnato in gennaio e a fronte di attese degli economisti per un progresso dell’11,0%. Graficamente il Nikkei ha avuto la meglio su di un ostacolo (area 19000) che nelle ultime settimane era riuscito a frenarne l’impeto, rallentandone la corsa partita dai minimi di inizio anno in area 16600. Non sono ora presenti ostacoli di spessore lungo il cammino che dovrebbe ricondurre i corsi fino sui massimi di inizio del nuovo millennio a 20800 circa, target ambizioso ma più che mai alla portata. In tale ottica sarà importante la permanenza al di sopra di quota 19000 nel brevissimo, circostanza che sembra avere buone possibilità in virtù proprio dell’accelerazione odierna che ha creato un buon margine per assorbire eventuali correzioni nell’immediato. Solo il perentorio ritorno al di sotto di quota 19000 e la successiva violazione dei 18600 punti muterebbero le prospettive di crescita anticipando una correzione più marcata del rialzo degli ultimi mesi. Borsa Usa A New York i principali indici hanno chiuso la seduta in netto rialzo. Il Dow Jones ha guadagnato l’1,47%, l’S&P 500 l’1,26% e il Nasdaq Composite lo 0,89%. Dopo due sedute in ribasso i listini Usa sono tornati a salire grazie all’indebolimento del dollaro e ai titoli bancari. Negativo invece il comparto energetico. Le richieste di sussidi disoccupazione la scorsa settimana sono calate più del previsto a 289 mila unità (-36 mila). Gli analisti avevano previsto 310 mila unità. I prezzi delle importazioni sono tornati a salire a febbraio per la prima volta dopo nove mesi. Il dato (+0,4%) è superiore alle attese (consensus +0,1%). Le vendite al dettaglio nel mese di febbraio sono calate dello 0,6%. Si tratta del terzo calo mensile consecutivo. Gli economisti avevano previsto un incremento dello 0,3%. Oggi è previsto il dato dei prezzi alla produzione relativo al mese di febbraio. Europa Le principali Borse europee hanno aperto l’ultima seduta dell’ottava in rialzo. Il Dax30 di Francoforte guadagna lo 0,18%, il Ftse100 di Londra lo 0,05% e l’Ibex35 di Madrid lo 0,3%. Invariato il Cac40 di Parigi. Italia Il Ftse Mib segna +0,07%, il Ftse Italia All-Share +0,11%, il Ftse Italia Mid Cap +0,25%, il Ftse Italia Star +1,02%. Ottima partenza per A2A (+3% a 0,9610 euro): gli analisti di Equita hanno promosso l’azione a BUY alzando il prezzo obiettivo a 1,08 euro. Incoraggiano le valutazioni le recenti anticipazioni del management sul nuovo piano industriale che potre bbe prevedere un incremento del payout (in dividendi), incrementare gli investimenti e al tempo stesso promuovere l’efficientamento e ulteriori interventi sul debito. Il prossimo 9 aprile è atteso il piano industriale della multiutility lombarda che potrebbe nei prossimi mesi essere coinvolta in un consolidamento del settore dei servizi in Italia. Yoox (+2,8% a 20,20 euro) prolunga il rally portandosi sui massimi dallo scorso giugno. Il titolo è ormai a ridosso dei primi obiettivi a 22,50 euro circa, oltre i quali si aprirebbero nuovi spazi di ascesa in direzione di 23,80/23,90. In verde Salvatore Ferragamo (+1,9%) che chiude il 2014 con ricavi 2014 a +6%, EBITDA a +13%, EBIT a +12%. L’utile netto si attesta a 164 milioni di euro, rispetto a 160 milioni di euro che, al 31 dicembre 2013, includevano circa 13 milioni di euro derivanti dalla plusvalenza per la cessione della quota nella società Zefer: al netto di tale plusvalenza, l’ut ile netto è aumentato del 11%. Il cda proporrà all’assemblea degli azionisti la distribuzione di un dividendo pari a euro 0,42 per azione ordinaria, rispetto ad euro 0,40 dell’esercizio precedente. L’andamento del business nei primi mesi dell’anno conferma l’aspettativa, in assenza di rilevanti fenomeni geopolitici avversi, di un ulteriore crescita anche per il 2015. Crolla Tod’s (-6,4%) che chiuso il 2014 con ricavi in calo marginale dello 0,2% a 965,5 milioni di euro, EBITDA in calo da 236 a 193 milioni di euro circa, e utile netto di gruppo a 97,1 milioni da 133,8 nel 2013. Il dividendo proposto scende dai 2,7 euro del 2013 a 2 euro. Il CFO Emilio Macellari ha dichiarato di essere fiducioso di poter raggiungere il consensus degli analisti sul 2015, ovvero crescita dei ricavi del 5,5% e margine EBITDA al 20,3%. Ottimo inizio di seduta per Dea Capital (+5,3% a 1,84 euro) che chiude il 2014 con NAV (Net Asset Value) di Gruppo in crescita a 2,41 euro pe r azione da 2,27 al 30 settembre 2014 e 2,30 a fine 2013. La posizione finanziaria netta consolidata diventa positiva per 57,8 milioni di euro, da un indebitamento di 127,4 milioni a fine 2013. Il risultato netto di gruppo è pari a -57,6 milioni di euro, da -31,1 milioni nel 2013, principalmente per effetto dell’impairment su Santè. Il risultato della capogruppo migliora a -4,5 milioni da -62,9 milioni nel 2013. Il cda propone all’assemblea la distribuzione della Riserva Sovrapprezzo per un importo pari a 0,30 Euro per azione e un piano di acquisto di azioni proprie fino al 20% del capitale sociale. Acquisti anche su Falck Renewables (+2,1%) che nel 2014 ha totalizzato ricavi in leggero calo sul 2013 ed EBITDA consolidato pari a 135,3 milioni di euro, in flessione rispetto all’esercizio precedente in cui era pari a 145,3 milioni di euro, ma superiore alle aspettative di gruppo e alla guidance comunicata al mercato. L’indebitamento fin anziario netto, escludendo il fair value sui derivati, è in forte miglioramento a 560 milioni di euro rispetto ai 673,8 milioni di euro al 31 dicembre 2013. La distribuzione di un dividendo pari a 0,062 euro per azione, in crescita rispetto all’anno precedente è attribuibile all’esito Favorevole dell’operazione di cessione del 49% delle partecipazioni negli asset eolici britannici.


I dati macro attesi oggi Venerdì 13 marzo 2015 05:30 GIA Prod uzione industriale (finale) gen; 10:00 ITA Inflazione (finale) feb; 13:30 USA Indice prezzi alla produzione feb; 15:00 USA Indice fiducia consumatori (Univ. Michigan) (prelim.) mar.