Caso Mediaset, l’ultimo tassello della colonizzazione francese

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Per “libero mercato” si intende un mercato in cui i prezzi di beni e servizi sono raggiunti esclusivamente dalla mutua interazione di venditori e acquirenti. Per definizione, nel libero mercato, venditori e acquirenti non si forzano o ingannano a vicenda, né sono forzati da una terza parte.

Il mercato azionario italiano è, formalmente, un libero mercato regolamentato, in quanto i prezzi ai quali sono scambiati i titoli delle aziende quotate sono il frutto dell’incrocio tra domanda e offerta all’interno di un sistema telematico di pubblico accesso soggetto a precise regole. 

Negli ultimi anni, stiamo assistendo in borsa a una graduale opera di colonizzazione di aziende quotate italiane appartenenti ai settori strategici dell’economia da parte di investitori di matrice francese. Tale processo sta avvenendo attraverso una duplice forma: l’ingresso nel governo delle società e/o l’ingresso nel capitale azionario con quote di controllo. I tempi e le modalità delle acquisizioni non sono mai stati casuali: si è sempre profittato di un forte deprezzamento in borsa o di una corposa opera di ristrutturazione delle potenziali prede, per poi sferrare l’attacco; ad esempio, Parmalat è stata scalata dai francesi di Lactalis dopo lo “scandalo Tanzi” e la grandiosa opera di ristrutturazione di Enrico Bondi, il quale ha riconsegnato agli azionisti una società a elevata redditività e leader mondiale di settore. Telecom Italia è stata servita su un piatto d’argento ai francesi di Vivendi, a un prezzo a dir poco ridicolo, dopo una serie innumerevole di errori gestionali e passaggi di mano del pacchetto di controllo a imprenditori che hanno fatto ricorso al debito bancario per acquistare la quota di maggioranza relativa, trasferendo poi tutte le conseguenze economiche sugli indifesi azionisti di minoranza. Solo per dare un’idea della ventennale opera di distruzione di valore, ricordiamo che nel lontano 1997 il Ministero del Tesoro ha incassato 13 miliardi di euro dalla cessione del 35,2 per cento del capitale del gruppo (solo rete fissa), valorizzando dunque l’intera società alla cifra di circa 38 miliardi di euro e che i successivi passaggi di mano della quota di controllo sono stati realizzati a un valore corrispondente della società pari a 62 miliardi (Colaninno, 1999), 68 miliardi (Tronchetti Provera, 2001) dopo avere fuso Tim in Telecom Italia, e infine 52 miliardi (Intesa, Generali, Mediobanca e Telefonica, 2007). Oggi la società è saldamente controllata dal gruppo francese guidato da Vincent Bolloré, il quale detiene una quota del 24 per cento circa avendo sborsato circa 3,3 miliardi di euro, corrispondenti a un valore complessivo di Telecom Italia di circa 13,7 miliardi di euro, ovvero il 63 per cento in meno rispetto al valore della privatizzazione della sola rete fissa nel 1997.

Il capitolo banche è forse il più doloroso in assoluto e, a tal proposito, va fatta una doverosa premessa. Il Consiglio dell’Unione Europea, il 16 dicembre 2014, ha nominato la francese Danièle Nouy alla presidenza del Consiglio di Vigilanza Unica Bancaria presso la BCE, organismo del tutto indipendente del Board presieduto da Mario Draghi che si occupa delle decisioni di politica monetaria. Il curriculum della Nouy parla molto chiaro: l’approccio con il quale ha inteso affrontare il problema della solidità e stabilità delle banche è del tutto in linea con quello proprio della Bundesbank; non è dunque un caso se, nell’analisi delle criticità del sistema bancario europeo all’interno dei discutibilissimi stress test, l’asse franco-tedesco abbia privilegiato i Non Performing Loans, crediti deteriorati e sofferenze in senso stretto (sia lorde che nette), rispetto ai derivati e ai titoli strutturati, vere e proprie montagne difficilmente scalabili in pancia alle banche globali come Deutsche Bank, Commerzbank, BNP Paribas, Société Générale e Crédit Lyonnais, che evidenziano un valore nozionale complessivo superiore al prodotto interno lordo dell’intera Unione europea, inclusi i Paesi esterni all’area euro. 

È di attualità il clamoroso diniego del Consiglio di Vigilanza presieduto dalla Nouy ai vertici di BMPS, i quali, in seguito alla temporanea situazione di instabilità politica generatasi in Italia dopo le dimissioni del governo Renzi, chiedevano una proroga di venti giorni, dal prossimo 31 dicembre al 20 gennaio 2017, per concludere sul mercato l’operazione di aumento di capitale da cinque miliardi di euro. Il rifiuto è giunto dopo ben cinque giorni di attesa con la surreale motivazione che l’istituto senese, dopo aver realizzato negli ultimi diciotto mesi i migliori risultati operativi degli ultimi dieci anni, rischierebbe la propria sopravvivenza prorogando l’operazione nei primi venti giorni del 2017. Il giorno prima della quanto mai bizzarra pronuncia del Consiglio di Vigilanza, il numero uno di Unicredit, il francese Jean Pierre Mustier, ha presentato alla comunità finanziaria il nuovo piano industriale che prevede, oltre al taglio di 833 filiali e 14mila dipendenti entro il 2019, la cessione di un portafoglio di 17,7 miliardi di euro lordi di sofferenze e un aumento di capitale “monster” da 13 miliardi di euro da effettuarsi nel prossimo mese di marzo. Ricordiamo che, recentemente, il gruppo ha perfezionato la cessione della società di risparmio gestito Pioneer ai francesi di Amundi per 3,5 miliardi di euro (che nell’asta hanno battuto il consorzio Poste Italiane), ha ceduto la partecipazione polacca in Bank Pekao per un valore vicino ai 3 miliardi di euro e infine il 30 per cento di Finecobank, incassando circa 880 milioni di euro; dunque, la reale esigenza di liquidità del secondo gruppo bancario italiano è pari a oltre 20 miliardi di euro (13 miliardi di aumento sommati ai 7,4 miliardi derivanti dalle cessioni). A questo punto sorgono spontanee una serie di domande: perché Unicredit lo scorso 18 aprile ha distribuito circa 750 milioni di euro ai propri azionisti sotto forma di dividendi per poi dichiarare agli stessi, dopo appena otto mesi, che a breve dovranno versare nelle casse della società ben 13 miliardi, nonostante la società abbia realizzato circa 5,5 miliardi di euro di utile netto negli ultimi tre anni di cui 1,9 miliardi nei primi nove mesi del 2016? Come mai l’autorità di Vigilanza europea negli ultimi stress test ha bocciato BMPS e promosso Unicredit se è improvvisamente emersa una necessità di capitale per un valore di oltre quattro volte superiore rispetto alla ricapitalizzazione da 5 miliardi imposta a BMPS? Con una capitalizzazione attuale di circa 17 miliardi di euro e ipotizzando un aumento di capitale con un forte sconto (ad esempio a un valore di circa 9 miliardi di euro al prezzo di 1,5 euro per azione) non c’è il rischio che gli attuali azionisti di Unicredit subiscano un autentico esproprio (i corposi utili di cui sopra, non distribuiti, saranno divisi tra vecchi e nuovi azionisti), non potendo sostenere l’onerosità dell’operazione a vantaggio di potenziali nuovi gruppi che di fatto diventerebbero gli azionisti di controllo del secondo gruppo bancario italiano? Ci sono voci, non smentite, circa la volontà del gruppo bancario francese Société Générale, di partecipare con una quota importante al futuro aumento di capitale dell’istituto di credito italiano o di entrare nel capitale immediatamente prima dell’operazione per poi sottoscrivere l’aumento; un’operazione di ingresso a prezzi di saldo in una Unicredit “ripulita” dalla cessione di circa 18 miliardi lordi di sofferenze, dall’innalzamento delle coperture sugli altri crediti deteriorati, nonché rafforzata patrimonialmente dall’innesto di nuova liquidità per oltre 20 miliardi di euro, potrebbe elevare considerevolmente i coefficienti di bilancio del colosso francese, “annacquando” la tossicità dei derivati nell’attivo patrimoniale. Sarà pura coincidenza, ma Jean Pierre Mustier, dal 2003 al 2008, è stato responsabile della Divisione Corporate e Investment Banking nonché esponente del comitato esecutivo di Société Générale, per poi passare al settore Asset Management (risparmio gestito) e Private Banking prima di lasciare il gruppo francese nel 2009. 

Nel frattempo l’azione Unicredit, che da inizio anno cede circa il 45 per cento, ha realizzato nelle ultime dieci sedute borsistiche un rialzo del 40 per cento circa. 

A titolo di cronaca, ricordo che Unicredit è il primo azionista del gruppo Mediobanca, il quale a sua volta è il primo azionista del gruppo assicurativo italiano Generali il cui amministratore delegato, dallo scorso 17 marzo, è il francese Philippe Donnet; sempre a titolo di cronaca, Société Générale è attualmente il secondo azionista (4,2 per cento) di Generali dopo Mediobanca (13,2 per cento). Rammento inoltre che il gigante assicurativo francese Axa è già azionista e partner commerciale di BMPS; magari, nel prossimo futuro, il gruppo transalpino potrebbe decidere di entrare nella partita Generali, indirettamente tramite Unicredit o, direttamente, attraverso un’operazione di mercato sul capitale del colosso assicurativo italiano. Infine, a essere maliziosi, chissà che non sia prevista anche una poltrona per gli amici tedeschi (Allianz?) nel salotto Unicredit, in modo da mantenere saldo l’asse politico Parigi/Berlino. 

È di questi giorni l’annuncio della scalata ostile da parte del gruppo francese Vivendi (gli stessi di Telecom Italia) finalizzata a ottenere il controllo di Mediaset, la società controllata dal gruppo Fininvest di Silvio Berlusconi. Il titolo ha realizzato nella seduta del 13 dicembre un rialzo del 32 per cento, riducendo quasi del tutto le perdite dell’intero anno 2016. 

Banche, telecomunicazioni, media, assicurazioni, energia: i predatori francesi stanno colonizzando da qualche decennio le aziende operanti nei cinque settori chiave dell’economia italiana attraverso strumenti di controllo diretto (acquisto di quote rilevanti) o indiretto (ruoli chiave nel governo societario). Il territorio ideale per la cattura delle prede è il mercato borsistico, all’interno del quale si perfeziona il cambio di guardia a prezzi di saldo in base al principio del “libero mercato” e grazie alla colpevole assenza di meccanismi politici di difesa, quali la reciprocità tra Stati comunitari nelle operazioni di cessione di aziende strategiche o, in seconda battuta, l’ingresso nel capitale delle suddette aziende da parte di veicoli a capitale pubblico, quali ad esempio Cassa Depositi e Prestiti. Purtroppo, la nostra classe politica negli ultimi dieci anni ha compiuto degli autentici capolavori di autolesionismo, rinunciando a fette di sovranità nazionale a vantaggio di organismi comunitari che hanno imposto al nostro Paese il rispetto di regole, quali il patto di stabilità sui conti pubblici e il rispetto degli stress test bancari, che hanno generato milioni di disoccupati e hanno favorito la svendita a partner stranieri di aziende presenti nei ruoli chiave dell’economia, creando un enorme divario tra economie con surplus di bilancio (Germania) ed economie con deficit. 

Paradossalmente, oggi ci sono tutte le condizioni per assistere a un lungo rialzo del mercato borsistico italiano, dopo anni di clamorosa sottovalutazione rispetto alle principali piazze europee e mondiali, nella (quasi) totale inconsapevolezza che i veri affari li hanno già fatti i grandi investitori di matrice estera a danno dei piccoli risparmiatori italiani, colpevolmente penalizzati anche dall’industria del risparmio gestito che ha progressivamente abbandonato gli investimenti in aziende quotate italiane, ragionando troppo spesso in un’ottica di brevissimo termine, senza guardare i valori di bilancio e il reale differenziale rispetto ai corrispondenti prezzi di borsa.  

Quanto all’opera di colonizzazione di cui sopra, non prendiamocela solo con i francesi, divenuti nel frattempo anche proprietari, tra l’altro, di Gucci, Bottega Veneta, Brioni, Loro Piana, Bulgari, Edison e Parmalat; essi sono in buona compagnia: Wind (Russia), Alitalia (Emirati Arabi), Pirelli, Ferretti e Krizia (Cina), Merloni e Poltrona Frau (Stati Uniti), Italcementi (Germania), Valentino (Qatar), La Rinascente (Thailandia) e Ansaldobreda (Giappone), sono solo alcuni tra i “gioielli” italiani passati nelle mani di capitali esteri negli ultimi anni.

Tornando ai nostri giorni, l’attuale minaccia di nazionalizzazione di BMPS in virtù di un principio dettato da un organismo sovranazionale che prevede che una banca possa essere dichiarata tecnicamente fallita sulla base di una simulazione contabile che nulla ha a che vedere con la realtà, rischia di provocare la penalizzazione di circa 40.000 risparmiatori italiani che si trovano nel ruolo di proprietari (azionisti) o creditori (obbligazionisti) di un istituto che, in un contesto di libero mercato, nel primo semestre 2016 ha realizzato un utile netto di 302 milioni di euro dopo avere accantonato perdite su crediti deteriorati per 717 milioni di euro. 

Speriamo che l’elastico non si spezzi e che, dopo l’ingiustificato diniego da parte della BCE targata Nouy alla proroga di 20 giorni chiesta dai vertici BMPS per chiudere l’aumento di capitale da 5 miliardi sul mercato, anche i “predatori” si rimbocchino le maniche e contribuiscano a chiudere con successo un’operazione che, in un contesto normale, non solo non avrebbe mai dovuto essere lanciata ma, guardando al presente e al futuro, andrebbe chiusa in pochi giorni senza alcun problema. 

È in gioco la sovranità nazionale e la dignità del nostro Paese.