Che bello il made in Italy. Ma dov’è il made in Italy?

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(foto da Adobe Stock gratis)

di Ugo Calvaruso

Si parla spesso dell’importanza del “made in Italy” in quanto rappresenta, a livello mondiale e non solo nazionale, un importante brand, che in sé ha implicitamente caratteristiche quali l’eleganza, la bellezza, l’unicità, fors’anche la meticolosità. Ma quanta “italianità” c’è oggi effettivamente nei prodotti cosiddetti made in Italy?
Nonostante in diversi settori o in differenti aziende italiane ci sia ancora molta italianità, in altre ce n’è meno, fino ad arrivare ad alcune imprese o filiere dove – forse – è rimasto solo il brand del made in Italy. Questo perché tutta la parte della commodity, ossia dell’estrapolazione e della lavorazione delle materie prime, della produzione di semilavorati, a volte anche di parti importanti di prodotti o l’erogazione di servizi, e non solo di quelli post-vendita, sono delegati a paesi terzi e, quindi, delocalizzati.
Negli anni questo processo di delocalizzazione, supportato anche dalla globalizzazione, ha contribuito a indebolire il tessuto produttivo italiano e, quindi, le competenze della classe lavoratrice del Paese. Avere un tessuto produttivo nazionale è estremamente importante, come quello che si era “implementato” tra gli anni ‘70 e ‘80, perché non solo è in grado di garantire una maggiore occupazione nazionale (per gli italiani nativi e per chi – per necessità o volontà – ha deciso di vivere in Italia) ma anche per la creazione di un maggiore valore, in termini puramente economici, che può essere utilizzato allo scopo di sviluppare le infrastrutture, i servizi e il general intellect nazionali.
Investire in infrastrutture non significa, però, investire semplicemente “denaro” per la costruzione di autostrade, edifici e reti, bensì anche mantenerle e, ancor più, investire in ricerca, istruzione, formazione e comunicazione. Questi ultimi investimenti servirebbero a sviluppare quella che si potrebbe definire come “infrastruttura relazionale”, utile a saper dare la giusta attenzione alla tutela e alla valorizzazione del genius loci italiano, a quella che è stata definita prima come “italianità”, o meglio ancora alla cultura italiana, la quale può essere ritrovata in diversi prodotti delle imprese del Paese. Perché, oltre alle infrastrutture più hard ci sono quelle relazionali, le quali sono altrettanto essenziali sia per garantire un miglioramento nella così tanto acclamata produttività, oltre che nell’estensione della domanda interna e della capacità di esportazione, quanto in termini di qualità della vita e di tutela del nostro patrimonio, materiale e culturale.
L’Italia sembrerebbe aver imboccato la strada buia della distruzione del valore della peculiarità del saper inserire elementi della cultura dei territori all’interno di prodotti unici. Senz’altro questo è uno dei fattori che maggiormente genera incapacità e debolezza. Chissà come faremo in futuro, una volta distrutto il tessuto, a confezionare il vestito del cosiddetto made in Italy.