Chi si prende cura di chi cura? Burnout e supervisione per gli assistenti sociali

Delicato e profondamente umano, barcamenandosi ogni giorni su un filo sottile tra tutela dei diritti, fragilità umane e vincoli organizzativi, è questa la vita degli assistenti sociali. Il lavoro sociale è un mestiere che brucia. Non per mancanza di vocazione, quanto per la delicatezza dell’altro, per la complessità delle vite altrui, per i bisogni sempre più evidenti. Il lavoro sociale non è soltanto un mestiere, ma una vocazione che si intreccia con i diritti da tutelare, la gestione delle fragilità e la mediazione tra istituzioni e cittadini. Tuttavia, l’intensità emotiva, i carichi di lavoro crescenti e la scarsità di risorse espongono gli assistenti sociali al rischio di burnout, con conseguenze personali e organizzative significative. Un lavoro, caratterizzato da elevata esposizione emotiva e complessità gestionale, è tra le professioni più vulnerabili al burnout. Tale sindrome, è riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nell’ICD-11 come fenomeno occupazionale, compromette la qualità degli interventi e la salute dei professionisti. Non stupisce che il termine burnout “essere bruciati dentro”, ritorni spesso quando si parla della professione. Il burnout è una sindrome da stress cronico sul lavoro che porta a esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotta realizzazione personale. L’OMS non lo colloca come malattia, ma come rischio specifico legato al contesto lavorativo. Negli assistenti sociali si manifesta con: esaurimento emotivo, la sensazione di non avere più energia da dare alle persone seguite; calo della motivazione: perdita di fiducia nella possibilità di incidere realmente; cinismo e distacco: la relazione con l’utente diventa fredda, quasi burocratica; tutto si somatizza e si esterna con insonnia, mal di testa, gastriti da stress. Le conseguenze sul lavoro sono evidenti: maggiore turnover, assenteismo, errori professionali e soprattutto, impoverimento della qualità dei servizi. Bruciati dal lavoro. Esausti. Aiutare gli altri diventa fatica, una vera impresa. Ma c’è un antidoto, o almeno una bussola: la supervisione professionale. Non è un lusso, ma una necessità. Non è un beneficio individuale, ma una responsabilità istituzionale. Una pratica riconosciuta a livello normativo e raccomandata dagli organismi internazionali. La supervisione del personale dei servizi sociali è riconosciuta quale LEPS – Livello Essenziale delle Prestazioni Sociali, in virtù di ciò il PNRR – Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ha finanziato la supervisione professionale, divenendo un obbligo per i datori di lavoro, per il personale, ma anche un abbraccio verso sé stessi. In Italia, la supervisione è prevista e raccomanda da più fonti: dal Codice Deontologico degli Assistenti Sociali che sottolinea il dovere di aggiornamento, riflessione critica e prevenzione del burnout; sulla stessa lunghezza d’onda le Linee di indirizzo del CNOAS che pongono la supervisione come strumento imprescindibile di sostegno professionale. A delinearla anche la normativa europea: il Global Social Work Statement of Ethical Principles che richiama l’importanza della cura di sé e della supervisione come parte integrante dell’etica professionale. Spesso, quando si parla di supervisione nel lavoro sociale, si pensa a un controllo dall’alto, a una sorta di ispezione. In realtà non è questo. La supervisione non è un esame, non è giudizio e non è un controllo burocratico: è invece uno spazio protetto di riflessione e crescita professionale guidato da un supervisore esperto. Per gli assistenti sociali significa avere la possibilità di fermarsi, rileggere ciò che fanno e come lo fanno, confrontarsi con altri professionisti e con un supervisore qualificato, senza il timore di “dover dimostrare qualcosa”. In altre parole, è una palestra di pensiero e di cura reciproca. Ha diversi volti nelle sue funzioni: formativa, aiutando a sviluppare competenze, aggiornare strumenti metodologici, migliorare l’uso delle risorse professionali. E’ un momento di apprendimento continuo. Sostiene, permettendo di condividere emozioni, frustrazioni e difficoltà. Questo è cruciale per prevenire il burnout: quando un assistente sociale resta solo con il peso di storie dolorose o di carichi ingestibili, il rischio di logoramento aumenta. Diventa, la supervisione uno spazio di riflessione, aiutando a rielaborare i casi, vedere nuove prospettive, trovare soluzioni creative e più equilibrate. Infine, non riguarda solo il singolo ma l’intera organizzazione lavorativa, permettendo di migliorare processi, comunicazioni e coordinamento tra operatori, riducendo conflitti e rigidità. La supervisione può assumere diverse forme: individuale, centrata sul professionista, sul suo percorso e sulle sue difficoltà; di gruppo, stimola il confronto, il sostegno reciproco e la costruzione di buone pratiche condivise; istituzionale/organizzativa: punta a rendere più efficace l’intero sistema di lavoro, rafforzando il clima e le strategie di governance. La supervisione è un fattore protettivo. Studi hanno mostrato come i contesti che garantiscono supervisione costante registrino minori tassi di burnout e maggiore efficacia dei servizi. La supervisione rappresenta la bussola che orienta gli assistenti sociali tra complessità e rischi di logoramento. Investire in supervisione significa promuovere benessere, prevenire il burnout e garantire servizi di qualità ai cittadini. In un’epoca in cui i servizi sociali sono chiamati a fronteggiare sfide inedite – nuove povertà, disagio psichico, emergenze migratorie, fragilità familiari – la supervisione non è un lusso ma un pilastro. In definitiva, prendersi cura degli operatori significa prendersi cura delle comunità.