Come interpretare la crisi tra il Qatar e gli alleati dell’Arabia Saudita

 

La crisi tra Qatar e gran parte della nuova “NATO” sunnita, come la chiamano già oggi alcuni media statunitensi, consiste in una serie formale di 13 punti che la Arabia Saudita, l’Egitto, lo Yemen, gli Emirati, il Bahreine perfino le Mauritius hanno inviato, come ultimatum, a Doha: 1) rompere ogni rapporto diplomatico e economico con l’Iran, 2) chiudere immediatamente la base militare turca nei pressi di Doha e, comunque, porre fine alla collaborazione militare tra l’Emirato e Ankara, 3) chiudere immediatamente Al Jazeera, vecchia emittente sorta sulle macerie della BBC in lingua araba e poi monopolizzata, de facto, dalla Fratellanza Musulmana, 4) non finanziare più, da parte dei membri della casa reale di Doha, reti quali Arabi21, RASSD, Araby al-Jadid e Middle East Eye, essendo peraltro “Araby al Jadeed” una nuova rete all news nata nel Marzo 2014, una rete questa organizzata da Azmi Bashara, un ex-membro del parlamento di Tel Aviv e che opera da Londra, Beirut e Doha, con 150 elementi dello staff, mentre il sovracitato Middle east Eye è oggi diretto da David Hearst, già caporedattore esteri del Guardian londinese.
Una rete bloccata, Middle East Eye, dalle autorità saudite e degli altri emirati.
Poi, 5) Poi, Riyadh ha richiesto a Doha di bloccare i finanziamenti ai gruppi o individui designati come terroristi da Arabia Saudita, EAU, Bahrain, Egitto, e oltre al blocco dei finanziamenti cedere dati e notizie.
Bene. Alcuni terroristi designati come tali dai sauditi sono definiti come tali anche dall’Occidente: si tratta per esempio di Hajjaj al Azmi, un cittadino kuwaitiano che vive spesso a Doha, poi le 13 richieste citano le “Brigate della Difesa di Bengazi”, una milizia creata nel giugno 2016 per contrastare le forze di “operazione Dignità” di Khalifa Haftar.
Le “brigate” di Bengazi hanno collaborato con il “califfato” dell’Isis nelle sue operazioni a Suq al-Hout e nella Sirte.
Poi, nella lista saudita si trova Abdullah Bin Khalid al Thani, già ministro degli interni dell’emirato e collegato alle operazioni jihadiste del 9/11 2001.
Bene, ma allora diciamola tutta. Il principe Turki bin Faisal, è stato il capo, per 23 anni, dei Servizi di Ryiadh dal 1979 a soli dieci giorni prima del 9/11. Un caso?
E. secondo dati ormai notissimi, sono stati gestiti dai Servizi sauditi Nawaf bin al Hamzi e Khalid al Mindar, entrambi arrivati in Usa per l’operazione 9/11.
Al Bayoumi, selezionato dal FBI proprio come agente saudita, aveva in Usa anche ricchi finanziamenti concessi da Riyadh, tramite la ditta della capitale saudita Dallah Alco.
Al Bayoumi era collegato con Fahad al Thumairy, dirigente del ministero degli affari islamici dei sauditi, ma lasciamo qui stare le 29 pagine escusse dalla relazione Usa sui sauditi e il 9/11.
Un discorso che ci porterebbe molto lontano e ci illuminerebbe su molti dei fatti che oggi stanno accadendo, e non solo in Medio Oriente.
Sul piano strategico, la questione del rapporto tra sauditi e terrorismo islamico dura da molti anni: il jihad, che l’occidente stupidamente ha favorito, è diventato agente geopolitico primario in tutto il Grande Medio Oriente e oltre.
E questo solo e unicamente per colpa degli occidentali, che avevano tutte le possibilità per costringere sauditi, emirati, Iran, Libano, Iraq e tutti gli altri attori regionali islamici in Medio Oriente a più miti consigli sul jihad “della spada”.
Ma Quos Deus perdere vult, dementat.
Se rimane così, la situazione è quindi senza soluzioni. Noi ci godremo il jihad teleguidato e poi chiederemo soldi a chi lo manovra, per salvarci da una crisi economica che è anche generata da una geopolitica folle di tutto l’occidente.
Gli arabi sauditi investono oggi ben 20 miliardi di Usd negli Usa per le infrastrutture, poi, sei miliardi per 150 elicotteri Black Hawk da utilizzare tutti nel Regno.
Se tutto va bene, nella direzione rapidissima impressa recentemente verso la diversificazione economica, i sauditi andranno avanti secondo il programma il loro programma vision 2030, vendendo prima di tutto la Saudi Aramco sul mercato.
Ecco un altro tassello importante per capire i fatti di oggi.
Ma il progetto “vision 2030” propone anche situazioni che possono ancora generare tensione, come per esempio l’aumento delle tariffe e delle tasse; ma con una diminuzione del tasso di disoccupazione dall’11,6% al 7%.
Poi, Riyadh progetta il supporto primario alle Piccole e Medie Imprese.
Il fondo pubblico dedicato alle PMI Musharakah saudita ha già a disposizione SR 4 miliardi, ovvero circa 6 miliardi di Usd.
Insomma, i sauditi vogliono diversificare rapidamente le loro economia dipendente dal petrolio, e crescere fino al ruolo, nel 2020, di 15° economia globale.
Ci saranno anche Zone Economiche Speciali e una crescita, secondo i criteri internazionali, degli investimenti esteri diretti al 5,7% dall’attuale 3,8%.
Il settore privato, secondo i progetti di Al Saud, dovrebbe arrivare al 65% del Pil dall’attuale 45%.
Ecco, se i sauditi non mettono a regime, secondo questo programma, tutta la Penisola e il mondo sunnita, il “Progetto 2020” è evidentemente destinato a fallire. Altra motivazione razionale per il diktat anti-Qatar.
Poi, passiamo al punto 6).
I sauditi dicono in questo contesto al Qatar di “rompere le relazioni con Hezbollah, Al Qaeda e il “califfato”.
Bene, vediamo i dati.
L’Emiro al Thani, capo del Qatar, ha organizzato nel 2008 un incontro tra tutti i partiti presenti nello spettro politico libanese, mostrando un chiaro sostegno al movimento sciita del “partito di Dio” e ai suoi alleati, soprattutto per le numerose fondazioni iraniane operanti a Beirut.
Ed è bene qui ricordare che fu proprio il 2008 l’anno in cui venne ucciso, probabilmente da una operazione congiunta tra alcuni Paesi sciiti, il leader libanese sunnita (che aveva iniziato le sue fortune economiche in Arabia Saudita) Rafik Hariri.
Recentemente, l’emiro di Doha ha anche parlato di Hezbollah come di un “movimento di resistenza”, aggiungendo che “non è saggio” contrastare l’Iran.
Al Thani ha poi affermato che tali notizie erano state manipolate, ma questo non fa che peggiorare, ovviamente, la situazione.
Però la questione, oltre che geopolitica, è economica.
Il Qatar è un relativamente piccolo, ma non irrilevante, produttore di petrolio, con 620mila barili/giorno; ma è il primo fornitore di gas naturale al mondo, con un dato ultimo, dell’anno scorso, che segnala l’emirato come esportatore, soprattutto, in Oriente, di 77, 2 milioni di tonnellate.
Ma perché non c’è un OPEC del gas naturale, che eviterebbe la politicizzazione della ricerca di quote di mercato tra i produttori?
Intanto, gli Usa stanno diventando il più grosso produttore di gas naturale al mondo, con un livello di estrazione, nel 2016, del 23%, mentre nel 2001 la quota di shale gas nella estrazione di idrocarburi nordamericani era solo dell’1%.
E’ quindi quasi ovvio immaginare come si trasformeranno prezzi e quote di mercato con questa massa di gas liquido, in Europa e in Asia; e come sarebbero ridotte le economie dipendenti dal gas naturale in Medio Oriente, se Washington diventasse più aggressiva sui mercati globali del gas liquido.
Dipendenza netta dei mercati europei dalle importazioni di gas africano e mediorientale, una prezzatura rigida del gas liquido sui mercati asiatici, i fortissimi investimenti necessari per le infrastrutture estrattive e del trasporto, sono tutti fattori che impediscono la creazione, diversamente da quanto è accaduto per il petrolio, di un mercato mondiale del gas naturale protetto da un unico cartello dei produttori.
Ecco perché non c’è l’OPEC del gas ed ecco, soprattutto, perché gli esportatori di petrolio in crisi finanziaria vogliono mettere alle corde e poi, magari, espropriare i grandi estrattori di gas.
L’attuale stretta sul Qatar da parte dei sauditi e dei loro alleati crea quindi un grosso problema economico all’emirato degli Al Thani, dato che è stato vietato l’attracco al terminal gaziero e petrolifero saudita e degli Emirati di Fujariah, nel Golfo Persico, a tutte le navi battenti bandiera del Qatar.
Per ora l’emirato “punito” dai sauditi ha rassicurato i clienti, soprattutto quelli asiatici e il principale, la giapponese Jera, che compra con contratti a lunga scadenza il gas qatarino, sulla regolarità delle forniture, ma niente vieta che si creino ritardi e sovracosti, che riguarderanno presto anche l’Italia.
La caduta dei prezzi del petrolio aveva peraltro creato, nelle finanze pubbliche di Riyadh, un “buco” di 98 miliardi di usd.
In una logica di saccheggio, che la norma coranica permette, la soluzione più facile è allora quella di mettere in crisi l’avversario più ricco.
Comunque, oltre a creare titoli di debito, i sauditi venderanno quote di rilievo delle loro società petrolifere, ma soprattutto, e questo è un dato centrale, lo ripetiamo, della Saudi Aramco.
La diversificazione economica è quindi davvero una necessità immediata per l’Arabia Saudita, e questo spiega gran parte dei rivolgimenti interni attuali tra i “Sette Sudayri” della famiglia Al Saud che reggono, fin dal tempo della rivolta wahabita, le sorti di gran parte della penisola arabica.
Ma proseguiamo con i diktat emessi dai sauditi e dai loro alleati contro il Qatar.
Sempre per continuare la discussione dell’”ordine” a Doha n.5, si tratterebbe di 59 individui e 12 istituzioni che, secondo Riyadh, sostengono, organizzano e finanziano il terrorismo.
Tra le organizzazioni, vi sono le charities legate alla famiglia Al Thani, ovviamente, ma si trova nell’elenco anche la Saraya al Ashtar, una organizzazione di “terroristi occasionali” legata ad Hezb’ollah in Bahrain, la “Coalizione 14 Febbraio”, sempre operante in Bahrein a favore della maggioranza sciita di quel Paese, le “Brigate della Resistenza”, sempre attive in Bahrein, la Saraya al Mukhtar, anche questa una lega sciita operante nel regno degli al Khalifa, infine l’Harakat Ahrar Bahrein.
A giudicare da questa lista, sembra che il Daesh-Isis non sia una organizzazione terroristica, e nemmeno Al qaeda.
Già, ma si tratta di organizzazioni sunnite.
Peraltro, da pochi giorni sono usciti nei media britannici documenti molto compromettenti sul finanziamento dei dirigenti sauditi a tutte le organizzazioni del terrorismo jihadista.
Sempre secondo i dati più aggiornati, la spesa della classe dirigente di Riyadh per diffondere il wahabismo (e il salafismo) nel mondo, entrambi fondamenti ideologici del jihad contemporaneo, è oggi di almeno 5,2 miliardi di Usd.
Quindi, le potenze petrolifere dicono brutalmente al Qatar, leader mondiale del gas, di estradare i “terroristi” (ma solo quelli sciiti) e non interferire negli affari interni o concedere la cittadinanza a cittadini sauditi, egiziani, emiratini che siano ricercati nei loro paesi di origine.
Sono questi i punti 7 e 8 del cahier de doleances emesso da Riyadh e dai suoi alleati, sostenuti in questo dalla scarsa lungimiranza dell’intelligence statunitense.
E’ comunque ormai accertato che la casa regnante di Doha ha ospitato e protetto Khalid Sheik Mohammed, nel 1996, salvandolo da un mandato di arresto emesso dagli Usa contro quello che è ritenuto uno degli “architetti” del 9/11.
E’ inoltre egualmente accertato che un membro della famiglia Al Thani ha fornito una base sicura e coperta a Doha ad Al Zarkawi, il fondatore di Al Qaeda in Iraq, nei suoi numerosi trasferimenti da e verso l’Afghanistan.
Il premier iraqeno al Maliki ha poi apertamente accusato il Qatar di sostenere il califfato di Al Baghdadi.
Già, ma perché Doha sosterrebbe il Daesh-Isis, finanziato soprattutto dal suo arcinemico saudita?
Semplice. Perché il califfato sirio-iraqeno ha operato almeno tre attacchi, debitamente rivendicati, sul territorio saudita, nel 2015, 2016 e 2017.
Poi, infatti, al punto 9 i sauditi e i loro alleati, sostenuti dagli Usa che scoprono come il Paese che organizza i terroristi sia solo l’Iran sciita, obbligano il Qatar a sospendere ogni aiuto ai loro nemici politici interni ospiti dell’emirato di Doha e a informarne immediatamente le autorità sunnite (già, ma anche il Qatar è rigorosamente sunnita).
Poi, Riyadh e gli altri richiedono sempre a Doha di allinearsi ai sauditi e agli altri firmatari del diktat sul piano “economico, politico, sociale e militare”, seguendo le indicazioni del Trattato raggiunto tra Doha e Riyadh nel 2014.
Il trattato citato riguarda in particolare la cessazione, da parte del Qatar, alla fornitura di soldi e armi e al supporto logistico ai gruppi e agli individui ostili ai sauditi in Yemen, Egitto e nei vari Paesi del Golfo, Arabia Saudita ovviamente compresa.
Erano, quelli del 2013 e 2014, accordi segreti, ma il tema dei documenti è soprattutto quello del contrasto alla Fratellanza Musulmana, attiva ormai, sia pure in segreto, in Arabia Saudita e in tutto il Golfo.
E che ascolta i sermoni, su Al Jazeera, dello shaykh Al Qaradawi, teorico massimo della Fratellanza.
Non si deve dimenticare, qui, che fu proprio un professore universitario saudita della Fratellanza Musulmana a radicalizzare nel jihad Osama bin Laden, fino ad allora gaudente e occidentalizzato giovane tycoon saudita.
Le tredici richieste si concludono con due raccomandazioni: quella di sottoporsi ad una supervisione mensile nel primo anno e, per i successivi dieci anni, essere monitorati, sempre a scadenza annuale, e comunque decidere sull’elenco delle tredici richieste entro dieci giorni.
Naturalmente, Doha, che non ha finora accettato le tredici richieste, si è subito rivolta alla Turchia, governata da un partito, l’AKP, che nasce da una costola della Fratellanza Musulmana, e all’Iran.
Gli Usa hanno sostenuto, è noto, le richieste di Riyadh, salvo poi ricordarsi che il loro comando centrale per tutto il Medio Oriente è proprio in Qatar, presso la base di Al-Udayd.
Se il Qatar perderà il braccio di ferro con i sauditi e i loro alleati, le grandi riserve finanziarie di Doha saranno arraffate dai sauditi per finanziare il loro progetto di stabilizzazione dei bilanci pubblici e di rapidissima diversificazione economica, che è al centro della “linea” del nuovo re Muhammad al Salman.
Il Qatar ha un fondo sovrano da 355 miliardi di usd, possiede 30 miliardi di usd in titoli ed azioni e una cifra ignota, ma sicuramente colossale, in altri investimenti fuori dall’emirato.
Peraltro, la casa regnante saudita paga a caro prezzo, con un debito pubblico che avrebbe costretto al default Riyadh entro il 2018, proprio quei finanziamenti, ingenti anch’essi, concessi alle organizzazioni terroristiche in Siria, Yemen, Iraq, tutte militanze jihadiste ormai fuori dai nuovi equilibri e, ormai, evidentemente sconfitte dal nuovo nesso Russia-Iran-Siria e, in futuro, Turchia.
Inoltre, la sanguinosa lotta suicida all’abbassamento forzoso dei prezzi petroliferi, diretta soprattutto contro lo shale oil Usa, ha depauperato, in una condizione già critica, le finanze pubbliche e i redditi privati del Regno wahabita.
Trump, che ha giocato molte sue carte elettorali proprio sulla ripresa economica nordamericana da finanziare con i “petroli e gas non convenzionali”, come si chiamano ufficialmente gli shale, ha quindi, involontariamente, con la sua vittoria, innescato una durissima guerra intestina all’interno della famiglia Al Saud.
La prima fazione vuole ricostruire una relazione efficace con Russia e Cina, per stabilizzare i prezzi e, alla lunga, sganciare il petrolio saudita dal dollaro Usa, che sarà tra breve lo strumento finanziario solo della globalizzazione dello shale nordamericano, diretto concorrente di quello saudita.
La fazione opposta vuole invece mantenere la già fortissima relazione tra Riyadh e Washington, per usare l’economia Usa come vettore della diversificazione, sempre più necessaria e rapida, dell’economia saudita ancora molto oil dependent.
Collegata a questo progetto di nuovo bilateralismo Usa-Arabia Saudita vi è anche la pressione, da parte di Riyadh, contro la Nuova Via della Seta cinese, oggi nemico n.1 della geopolitica statunitense e che i sauditi filoamericani vogliono allontanare da tutti i paesi del Golfo.
E’ qui quasi inutile notare come l’Iran, invece, sia da sempre punto essenziale di passaggio della OBOR progettata da Pechino.
Si deve poi ricordare che è stato proprio il Qatar, in accordo con gli iraniani, ad aprire, il 14 Aprile 2015, il primo “Centro di Cambio” per lo yuan in tutto il Medio Oriente.
A Doha, oltre che il suddetto centro di compensazione monetaria tra la Cina e le valute del Medio Oriente, e ricordiamo qui che già sono in essere contratti petroliferi tra Pechino e Teheran in valuta cinese, opera anche la banca Industriale e Commerciale della Cina.
Se il yuan (e il rublo) diventassero il nuovo benchmark monetario per il gas e i petroli, finirebbe la pacchia del Dollaro Usa, che scarica sul commercio internazionale denominato in valuta nordamericana le asimmetrie del debito pubblico (che, compreso quello di famiglie e imprese, vale oggi il 345% del PIL di Washington) e del suo deficit commerciale.
“Il dollaro è la nostra moneta e il vostro problema”, come disse un governatore della FED ai suoi colleghi europei”.
Intanto, Muhammad bin Salman, il nuovo re saudita, progetta un nuovo fondo sovrano da due trilioni di dollari Usa, avendo in mente di far cessare, lo abbiamo visto, la dipendenza saudita dal petrolio “entro i prossimi venti anni”.
Sempre secondo la fazione filoamericana della famiglia al Saud, il nuovo fondo sovrano dovrebbe investire metà dei suoi capitali all’estero, senza naturalmente mai toccare l’Aramco, primo produttore di petrolio al mondo e detentore delle seconde riserve mondiali.
Sempre la fazione pro-Washington del Regno non mostra di avere particolari problemi con l’oscillazione dei prezzi del barile, come ha già peraltro dimostrato tentando, inutilmente, di mettere fuori mercato lo shale Usa, senza riuscirci.
Se il prezzo aumenta, bene, ci saranno a disposizione dei leader sauditi più soldi per accelerare la diversificazione economica, se invece i valori al barile calano, nessun problema nemmeno in questo caso: il petrolio saudita è quello a più basso costo unitario di estrazione, Riyadh potrà sempre andare a vendere i suoi prodotti nel mercato più in crescita e liquido del mondo, che è oggi quello asiatico.
E, anche qui, il ruolo primario del Qatar nel sistema energetico giapponese e cinese dà molto fastidio ai sauditi.
E tutto cambierà, in Medio Oriente, quando, alla fine delle ostilità in Siria, Israele dovrà far fronte ad un nemico n.1, l’Iran, che esce oggi molto rafforzato dal nuovo equilibrio di potere a Damasco (e in Libano) e dovrà fare anche i conti, in parte già iniziati, con quello che diviene sempre più il “male minore”, il wahabismo filoamericano dei sauditi.

Giancarlo Elia valori