Crisi di rappresentanza: attenti al regime

34

Va respinta l’idea dell’inutilità dei corpi intermedi: ma servono soluzioni trasparenti e democratiche

La discussione nel nostro Paese sulla necessità di pervenire ad una regolamentazione della rappresentanza delle forze economiche e sociali si protrae da decenni senza che si sia ancora giunti alla definizione di una posizione che possa risultare, insieme, condivisa ed efficace. La cosa riveste una importanza notevole, tenuto conto della circostanza di trovarci in una democrazia rappresentativa nella quale i corpi intermedi svolgono un ruolo essenziale per garantire ed agevolare il dialogo tra le diverse componenti economiche e sociali e tra queste e le Istituzioni. È indubbio che da qualche tempo, da troppi anni ormai, l’Italia si trova a vivere una crisi di rappresentanza di quasi tutte le strutture che per altrettanto tempo non hanno saputo interpretare gli interessi legittimi della parte politica, economica e sociale che esse sono deputate a tutelare. Sono in crisi i Partiti politici così come li abbiamo conosciuti per circa mezzo secolo, soltanto se partiamo dal secondo dopoguerra; è entrata in crisi la loro capacità di aggregare consensi intorno ai valori da essi espressi ed intorno ad una propria visione della società rispetto a quella degli altri. Sono in crisi, appunto, per avere perso il profondo radicamento con gli ideali ed i valori che rappresentavano la loro stessa ragion d’essere. Sono stati dispersi, in questo modo, insieme alle ideologie, a loro volta responsabili di divisioni profonde nella società, gli ideali ed i valori di cui detto. Il risultato è quello di aver dato vita a formazioni politiche, per lo più di stampo personale e, quel che è peggio, prive di qualsiasi collegamento con una visione originale dell’organizzazione di una società sempre più complessa e sempre più interessata da profonde trasformazioni. Sono andati in crisi i Sindacati dei lavoratori che, pur avendo svolto un ruolo insostituibile per la democrazia nel nostro Paese, hanno via via perso l’occasione per affrancarsi dalle logiche del collateralismo, con la conseguenza di rispondere, in qualche circostanza, più a logiche partitiche che ai legittimi interessi rappresentati. Vi è un ulteriore limite che i sindacati dei lavoratori hanno fatto registrare e, precisamente, quello di essersi arroccati, sotto la pressione di forme sempre più aggressive di corporativismo, nella difesa dello status quo che li ha portati ad occuparsi quasi esclusivamente, in un mondo che cambia velocemente, della tutela di quanti avevano un lavoro garantito a scapito dei tanti disoccupati. Sono in crisi le Associazioni di rappresentanza delle imprese: basti pensare allo strappo doloroso ed emblematico avutosi con la fuoriuscita della FIAT da Confindustria quando la prima era ancora una realtà tutta italiana, ma anche all’aumento incontrollato delle sigle che spuntano come funghi in rappresentanza delle piccole imprese, come delle imprese del commercio e dell’artigianato. È da molti anni che si assiste alla sempre maggiore affermazione del fenomeno della proliferazione di sindacati ed associazioni che presumono di rappresentare lavoratori ed imprese e, viceversa, rischiano di polverizzare la loro stessa rappresentanza e di consegnare al dialogo sociale, peraltro sempre meno apprezzato, un deficit di rappresentatività da parte dei suoi attori. Da questa crisi non sono riuscite a sottrarsi del tutto nemmeno le Centrali cooperative, anch’esse alle prese con una complessità di problemi ai quali stentano a dare risposte e che ne compromettono l’autorevolezza nella interlocuzione istituzionale, economica e sociale. Anche nella Cooperazione, infatti, negli ultimi dieci anni, abbiamo assistito alla nascita di altre due centrali e la loro consistenza non si è attestata su un numero molto più significativo di quello che occorre per il riconoscimento da parte del Ministero per lo Sviluppo Economico, di cui esse si devono dotare per potere svolgere, in regime di convenzione, l’attività di vigilanza sulle cooperative aderenti. La causa di tale frammentazione è certamente da imputare a molteplici ragioni, tra le quali vanno annoverate: un deficit di fiducia nella rappresentanza deputata ai corpi intermedi operanti nelle diverse categorie sociali, oltre che nei confronti di quella politica; l’affievolimento dei valori di solidarietà e di mutualità, che rischia di rendere ognuno di noi meno disponibile alla rinuncia di qualche pur minimo interesse di parte impedendo, in tal modo, una maggiore equità di condizioni che assicuri ai meno abbienti una vita meno disagiata e caratterizzata da minori stenti; un apparato politico ed istituzionale sempre meno incline all’ascolto e sempre più proiettato verso una semplificazione delle procedure di costruzione del consenso sulle scelte da operare, tanto da ritenere superflua la pratica della concertazione o, come più comunemente oggi si è portati a dire, del dialogo sociale. Vi sono poi, anche, altre ragioni che hanno contribuito ad alimentare tale frammentazione della rappresentanza economica e sociale, che attengono a sue responsabilità precise, specialmente delle realtà più storiche e strutturate che, pur avendo tutte le carte in regola per svolgere legittimamente e proficuamente il proprio ruolo, mostrano limiti evidenti ed oggettivi nella capacità di guida e di indirizzo che dovrebbe costituirne l’impegno principale. A fronte di tutto ciò, si è determinato un sostanziale affievolimento della interlocuzione tra le Istituzioni e le parti sociali, soprattutto a livello nazionale. Si va facendo strada l’idea della inutilità, o addirittura della dannosità dei corpi intermedi, quasi che essi possano essere annoverati tra quelle deleterie forme di corporativismo da combattere ed emarginare. Ciò sarebbe un grave e pericoloso errore. Ciò equivarrebbe ad eliminare dalla scena quei soggetti imprescindibili senza i quali verrebbe irrimediabilmente compromesso un pezzo importante della nostra democrazia, che poggia le sue basi proprio sul ruolo specifico di interlocutori istituzionali delle rappresentanze economiche e sociali. La nostra, infatti, è una democrazia rappresentativa e non assembleare, in cui sono ben individuati e distinti i compiti assegnati a ciascuno ed è proprio dal rispetto del ruolo di ogni attore che dipende il livello della democrazia italiana. Non vi sono ragioni, nemmeno quelle precedentemente elencate, che possano giustificare una qualsiasi ipotesi tesa alla esautorazione della rappresentanza delle imprese e dei sindacati dei lavoratori dal dialogo sociale per teorizzare l’interlocuzione diretta tra le Istituzioni ed i lavoratori o tra le Istituzioni e le imprese. Appare evidente a tutti che tale ragionamento equivale a determinare una condizione nella quale le Istituzioni provvedono alla definizione delle loro decisioni a prescindere da una preventiva consultazione tesa alla verifica di suggerimenti e valutazioni in grado di confermare o smentire la loro utilità per il bene comune e la loro coerenza con gli obiettivi fissati. Non è in discussione la legittimità dell’Esecutivo ad assumere, nei confronti del Parlamento e del Paese, le decisioni alle quali ritiene più opportuno pervenire; nel fare ciò, assolve ad un suo preciso impegno e ad un suo irrinunciabile dovere. Quello che appare irrispettoso del ruolo dei diversi soggetti chiamati a svolgere le proprie attività istituzionalmente previste è la deliberata volontà di decidere escludendo qualsiasi preventivo confronto con le parti economiche e sociali dal quale poter trarre qualche elemento ulteriore di riflessione in grado di mettere in discussione i propri convincimenti ovvero di radicarli più profondamente. Ma c’è un altro aspetto ancora più inquietante che riguarda la regolamentazione della rappresentanza ed i criteri attraverso i quali pervenire a forme di riconoscimento della rappresentatività che siano il più possibile oggettive e trasparenti. Orbene, è indubbio, come detto all’inizio, che una rappresentanza così frammentata determina una confusione che certamente non contribuisce a rendere evidente ed apprezzabile l’esercizio del dialogo sociale e rischia di fornire argomenti di riflessione a chi teorizza l’accantonamento di tale esercizio; ma sarebbe un errore cavalcare l’onda e pervenire a conclusioni che determinerebbero il solo risultato di compromettere un irrinunciabile esercizio democratico. Occorre avviare un percorso che dovrà condurre le rappresentanze economiche e sociali alla definizione di un accordo tra le parti nell’ambito dei rapporti interconfederali che, anche con la condivisione delle Istituzioni governative, possa gettare le basi per uno snellimento della rappresentanza che si realizzi sulla base dei numeri rappresentati e del radicamento acquisito tra i soggetti interessati. A tale proposito sarebbe opportuno sperimentare forme di aggregazione come quelle riguardanti la Cooperazione attraverso l’Alleanza tra le tre Centrali Cooperative storiche del movimento e l’esperienza di Rete Imprese Italia che mette insieme le associazioni del Commercio e dell’Artigianato. Un esempio inequivocabile di semplificazione della rappresentanza che non fonda i suoi presupposti in una legge liberticida, ma si realizza attraverso una scelta convinta e libera dei soggetti interessati. L’auspicio è che nell’immediato futuro possano trovare spazio questi percorsi di unificazione e semplificazione e che si inverta la tendenza alla frammentazione a favore di una maggiore aggregazione. È importante che ciò avvenga per iniziativa o con la partecipazione dei diretti interessati. Ma se questo non dovesse avvenire, mi auguro che nessuno pensi di decidere per decreto su materie per le quali la democrazia richiede un percorso di condivisione. Mi auguro, soprattutto, che quanto affermato dal Presidente del Consiglio qualche settimana fa sia solo una infelice battuta e che Egli non pensi seriamente al sindacato unico o ad associazioni altrettanto uniche in rappresentanza delle diverse categorie economiche e sociali. Ragionamenti di questo genere richiamano alla memoria tempi, circostanze e pratiche che mai più vorremmo considerare, tantomeno vorremmo tornare a vivere. Si tratterebbe, infatti, di risprofondare in una logica di regime nella quale le rappresentanze rispondono agli interessi di un potere intento a determinare il consenso acritico e comunque di ripristinare corporazioni sociali che ci allontanerebbero dal mondo civile e democratico.