Il presente contributo è una sintesi/tratto da un saggio pubblicato in francese e spagnolo dal titolo Une stratégie euro-méditerranéenne dans le nouvel ordre économique mondial / Una estrategia euromediterránea en el nuevo orden económico mundial, pubblicato da “Le Grand Continent”.
di Amedeo Lepore
- Premessa
Dopo la repentina chiusura dei collegamenti tra Ovest ed Est, a causa degli effetti dell’invasione russa in Ucraina, ma non solo, il legame tra l’Europa (in particolare, i Paesi meridionali del Vecchio Continente) e il Sud del mondo (in particolare, i Paesi della sponda meridionale del Mediterraneo) rappresenta la prospettiva essenziale per la creazione di una vasta area di intervento economico e per la diffusione degli investimenti produttivi, delle infrastrutture logistiche, delle connessioni digitali e degli scambi commerciali. Con la proiezione euromediterranea non si tratta soltanto di mettere in pratica l’obiettivo di un bilanciamento dei fenomeni di decoupling in atto tra Cina e Stati Uniti e di riassetto degli equilibri geoeconomici globali, ma della costruzione di un nuovo modello di sviluppo che riporti nell’ambito della competizione mondiale un’Europa consapevole e protagonista dei processi di trasformazione necessari sia dal punto di vista politico che da quello più strettamente economico.
Non è affatto un compito facile, date le condizioni attuali del Vecchio Continente, sebbene abbia mostrato molti segni di vitalità con le risposte fornite all’emergenza del Covid-19 e i piani di ripresa successivi, a cominciare dal Next Generation EU. L’Europa, infatti, deve tornare a svolgere un ruolo di riferimento nei processi di crescita dell’economia mondiale, traducendo il suo risveglio post-pandemico, dopo il sopore e le terapie sbagliate con cui ha reagito alla crisi finanziaria globale, in un mutamento strutturale e duraturo. Questo obiettivo può essere conseguito consolidando l’apertura di una nuova fase di governance multilivello, riformando intese, norme e procedure di ostacolo alla competitività europea, adottando politiche economiche e sociali coraggiose e innovative. È da tale angolazione che in questo contributo si affrontano alcune questioni centrali per il prossimo futuro, come: gli strumenti adatti per dispiegare un’azione efficace verso le aree del Sud del mondo e, in particolare, quelle del continente africano; la promozione di nuovi assetti internazionali e il ruolo dell’Europa; la posizione dei Paesi arabi in una prospettiva euromediterranea; le principali economie globali e l’evoluzione dell’opportunità africana; i problemi demografici e la condizione dell’Europa meridionale.
- Il Global Gateway e l’obiettivo dello sviluppo euromediterraneo
Il tema dell’incontro tra l’Europa e il Mediterraneo va affrontato in una prospettiva di valorizzazione del ruolo geoeconomico dell’Italia e delle regioni meridionali a livello internazionale. Un argomento di particolare interesse, finora poco dibattuto, è stato quello di un’iniziativa, come il Global Gateway, avviata a dicembre 2021 allo scopo di ridurre il divario degli investimenti globali che accompagna le transizioni gemelle e di incrementare la connettività dell’Unione Europea, assicurandole una maggiore autonomia strategica nelle relazioni politiche ed economiche con il resto del mondo. Si tratta di un piano mirato a realizzare un potenziamento delle infrastrutture di qualità a favore dei Paesi in via di sviluppo e del vicinato europeo, in direzione di un rafforzamento della competitività e di una messa in sicurezza delle catene di approvvigionamento, con una dotazione di 300 miliardi di euro (150 solo per il continente africano) fino al 2027, ripartita tra prestiti, sovvenzioni e garanzie.
Una quota dell’intera somma disponibile, pari a 18 miliardi, è costituita da sovvenzioni dirette (grants) derivanti da programmi comunitari, mentre 145 miliardi provengono dalla Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo e da altri istituti finanziari. I circa 135 miliardi restanti corrispondono a interventi che la Commissione punta a generare dal settore privato, suscitando un effetto moltiplicatore con le garanzie e le risorse assegnate dal Fondo europeo per lo sviluppo sostenibile, in collaborazione con la Banca Europea per gli Investimenti. Secondo l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, il Global Gateway non si limita a impostare un meccanismo per gli investimenti infrastrutturali, ma intende proporre un modello per i Paesi destinatari dei fondi, imperniato sulla fattibilità tecnico-finanziaria e sulla sostenibilità ambientale e sociale dei progetti.
In ogni caso, gli interventi attuati con questa misura – attraverso un più efficace coordinamento tra istituzioni comunitarie, Stati membri, organizzazioni finanziarie e imprese private – serviranno a promuovere uno sviluppo sostenibile, a consolidare i legami tra l’Europa e le aree più deboli, a ridurre il deficit globale di infrastrutture (pari a circa 15.000 miliardi di dollari). Questa iniziativa, inoltre, è orientata verso cinque comparti fondamentali (digitale, clima ed energia, trasporti, istruzione e ricerca, salute), lanciando un’ambiziosa sfida alla nuova via della seta. Infatti, i territori coinvolti da questa operazione potranno emanciparsi da una stretta dipendenza dagli investimenti provenienti dalla Cina, che spesso hanno accentuato la subordinazione economica e alimentato l’indebitamento dei Paesi terzi. Mentre, per l’Unione Europea, il vantaggio dovrebbe essere rappresentato dall’attenuazione dei rischi geopolitici della Belt and Road Initiative, dall’afflusso di materie prime critiche e da migliori rapporti commerciali con un’ampia parte del pianeta.
Alla fine dello scorso anno sono stati approvati 138 progetti prioritari del Global Gateway per il 2024, destinati ad Africa, Asia, America Latina e Caraibi. Questi progetti ne integrano altri 87, già avviati nel 2023. Diverse critiche, in qualche caso aspre, sono state indirizzate a questa strategia fin dalle sue origini. Un articolo dell’Economist l’ha definita “un mix di impegni esistenti, garanzie sui prestiti e ipotesi eroiche sulla capacità di attrarre investimenti privati, piuttosto che nuove spese effettive”. Altri rilievi hanno riguardato l’attrattività del Global Gateway rispetto alla strategia cinese, i tassi di interesse applicati ai prestiti e l’ammontare limitato di investimenti per l’area mediterranea. Nonostante queste notazioni, non sempre centrate, la nuova fase della policy europea si è collegata anche alla Partnership for Global Infrastructure and Investment, inaugurata dal G7 nel 2022, allargando i propri orizzonti verso un intervento di carattere strutturale.
Inoltre, l’inserimento del Piano Mattei italiano all’interno di questa strategia comunitaria e il confronto trilaterale in atto tra Italia, Germania e Francia per le tecnologie green, i materiali rari e le materie prime seconde possono diventare essenziali per una politica industriale innovativa. La proposta emersa nel G7 sull’industria per la creazione di un hub per lo sviluppo sostenibile, basato sull’intelligenza artificiale, da costruire in sinergia con i Paesi africani va in questo senso. Su tali contenuti è maturo il passaggio dalla fase delle valutazioni di contesto e della ideazione generale a quella del dispiegamento delle concrete azioni di sistema, di cui l’Europa meridionale può essere protagonista, non solo per il suo vuoto produttivo, ma anche per la sua collocazione geografica e l’ampliamento della sua funzione logistica.
La prospettiva aperta dal Global Gateway coglie la necessità di una ripresa delle relazioni economiche tra l’Occidente e un insieme di spazi cruciali della mappa globale, in direzione dell’Oriente e del Sud della terra. La concentrazione degli sforzi europei per l’Africa non è affatto casuale e va intensificata, visto che nel prossimo futuro gli avanzamenti più significativi per la demografia, la produzione e gli scambi avverranno in quel continente. Un pianeta in vorticoso cambiamento e, contemporaneamente, gravido di rischi può evolvere in svariati modi. L’Europa può contribuire alla nascita di un nuovo paradigma, evitando la transizione esiziale da un’età di crisi a una di conflitti, se sarà in grado di interpretare fino in fondo il suo ruolo di dialogo, cooperazione e promozione economica nell’ambito di un disegno lungimirante per sé e per altre parti del mondo, ponendo al centro della sua strategia il crocevia mediterraneo.
- La costruzione di un nuovo ordine economico internazionale e il ruolo dell’Europa
L’attenzione dell’opinione pubblica internazionale si sta rivolgendo sempre più assiduamente, in ragione dell’evoluzione degli eventi e della loro centralità, alle tensioni politiche, alle guerre e al riassetto geoeconomico di un mondo sempre più difficile da comprendere. L’economia è uno snodo imprescindibile per l’interpretazione di un’epoca inedita della storia umana. Ma è anche il campo operativo per il dispiegamento di cospicui investimenti, a proposito – ad esempio – dell’opportunità euromediterranea da cogliere in questo tempo. L’Economist ha titolato un rapporto molto articolato “L’ordine internazionale liberale si sta lentamente sgretolando”, aggiungendo che il suo collasso potrebbe essere improvviso e irreversibile. Leggendo quest’analisi è possibile farsi un’idea dell’intricata serie di temi che sottendono la costruzione di un nuovo ordine economico globale.
A uno sguardo d’insieme, l’economia mostra indicatori rassicuranti – con un Pil cresciuto del 3% nel 2023 – nonostante i conflitti bellici e commerciali in atto e il rallentamento del ritmo della globalizzazione. Tuttavia, un esame più approfondito fa emergere la debolezza del quadro generale, come conseguenza di un’erosione progressiva, soprattutto a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, della regolamentazione sorta a Bretton Woods per riannodare le relazioni economiche internazionali del dopoguerra. Secondo l’autorevole settimanale anglosassone, la disintegrazione del vecchio ordine è percepita diffusamente. Infatti, le istituzioni finanziarie (e non solo) alla base del sistema hanno perduto credibilità; le sanzioni sono impiegate quattro volte di più rispetto agli anni Novanta; il sostegno statale alle produzioni verdi di Stati Uniti e Cina ha innescato una “guerra dei sussidi” tra diversi Paesi; i flussi globali di capitale hanno iniziato a frammentarsi, ramificando le catene di creazione del valore.
Del resto, una volta cominciato il declino, il cedimento di un equilibrio consolidato può accadere senza preavviso. La prima globalizzazione di fine Ottocento, che sembrava durasse ancora a lungo, è terminata repentinamente con l’avvento della prima guerra mondiale. L’ascesa del neoliberismo di fine Novecento, che veniva giudicata inarrestabile, si è interrotta bruscamente con l’avvio della crisi economica del 2007-2014; la pandemia e la guerra, poi, hanno decretato la fine delle forme estreme di mercatismo. Oggi si può immaginare una rottura di analoga portata, a causa di un ritorno della “visione del mondo a somma zero” di Donald Trump, ma anche per effetto di una seconda ondata di importazioni cinesi a basso costo e di un’estensione dei conflitti ad America e Cina per Taiwan o a Russia e una porzione più ampia d’Europa.
Eppure, la globalizzazione, insieme ad aspetti controversi, ha dato impulso a trasformazioni profonde e a un’efficace interdipendenza mondiale, che dovrebbero scoraggiare nuove ostilità e chiusure economiche. Lo scenario che si prospetta sarebbe necessario non si discostasse da un tragitto grazie al quale centinaia di milioni di abitanti della Cina sono sfuggiti alla trappola della povertà mentre il continente asiatico si immergeva nell’economia globale, il tasso di mortalità infantile in tutto il mondo è sceso a meno della metà di quello dei primi anni Novanta, la quota di popolazione annientata dalle guerre ha raggiunto il minimo postbellico al principio di questo millennio. Il processo di globalizzazione, unito a una condizione di lunga pace, ha permesso ad alcuni Paesi arretrati di assumere il ruolo di potenze economiche nascenti, avvantaggiandosi dell’ordine economico e dei traffici mondiali per colmare il divario con i Paesi più avanzati.
L’inversione di queste tendenze e il rischio di un “grande scollamento”, a causa dell’allargamento dei focolai di crisi e della mancanza di un sistema regolatorio internazionale, rende più ardue le sfide di questo secolo. Le nuove forme di competizione vanno dall’indirizzo da fornire ai progressi nell’intelligenza artificiale e nell’innovazione tecnologica, alla promozione organica della bioeconomia circolare, alle sinergie da realizzare nella nuova economia dello spazio, al contenimento della corsa agli armamenti, fino all’orientamento dei flussi migratori e della crescita demografica. In questo contesto, per il Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta, l’economia europea è “particolarmente esposta alle conseguenze di una frammentazione del commercio mondiale”, date le sue connessioni produttive e finanziarie globali, la sua dipendenza dall’importazione di risorse naturali e dalla domanda estera.
Nonostante l’Europa per oltre un quarto di secolo abbia tenuto il passo con gli Stati Uniti in termini di incremento del Pil pro capite, la quota della UE nell’economia globale sta riducendosi più velocemente di quella americana. Mentre gli USA rappresentano un quarto circa dell’economia mondiale, l’eurozona ne equivale a circa un sesto. A parere di Daniel Gros, per rafforzare la collocazione geopolitica europea, bisogna “rivitalizzare l’economia”. A sua volta, Barry Eichengreen ritiene che occorrano idee innovative per il potenziamento dell’Europa. Tra i rimedi indicati da Panetta, vi sono la partecipazione europea alla riconfigurazione delle filiere produttive globali, che costituisce un’occasione per rilanciare l’economia meridionale attraverso “politiche di attrazione dei capitali”, e, in generale, una forte espansione degli investimenti pubblici e privati. Per questa ragione, l’Italia e il Sud del Paese devono essere pienamente parte di una prospettiva di ripresa del progetto europeo. Il Mezzogiorno può sviluppare un nuovo protagonismo se sarà in grado di acquisire sul campo la fiducia degli investitori globali, di aumentare il suo potenziale di crescita e di perseguire concretamente il suo inserimento nello spazio economico tra l’Europa e il Mediterraneo.
- I nuovi assetti euromediterranei, i Paesi arabi e la competitività meridionale
Una prospettiva euromediterranea comporta l’apertura a livello nazionale e comunitario di una fase di consistente espansione degli scambi e di solida cooperazione, non solo con l’altra sponda del “mare interno”, ma con i vasti territori del continente africano e del Medio Oriente, in una visione di largo respiro. Questa svolta può nascere dalla consapevolezza del ruolo di connessione geostrategica del Sud e dell’Italia in un modello inedito, dall’analisi della realtà di un “nuovo mondo” emergente e in crescita magmatica, dalla capacità di aggiornamento delle politiche industriali in un orizzonte transnazionale e metanazionale. La scelta di inserire il Piano Mattei all’interno del disegno comunitario del Global Gateway può rendere più credibile l’idea di un intervento coordinato verso l’Africa, seguendo una logica di condivisione tra i Paesi europei e quelli in tumultuosa evoluzione nell’area meridionale del Mediterraneo.
Inoltre, è in virtù di un’ampia sinergia internazionale che si possono compiere azioni efficaci per lo sviluppo, soprattutto nel campo dell’energia, dell’ambiente, delle infrastrutture, dei collegamenti, dell’innovazione digitale e della formazione. In tale quadro, poi, si può fare dell’economia e dei traffici commerciali uno strumento utile per debellare i numerosi conflitti in corso in questa zona cruciale del mondo e ristabilire una pace basata sulle interdipendenze, come sosteneva Norman Angell a inizio Novecento ne “La Grande Illusione”. Un recente rapporto dell’Economist Intelligence Unit (EIU) contribuisce a chiarire lo stato degli investimenti in Africa da parte dei Paesi arabi, mettendo in evidenza come non siano solo i nuovi contendenti (Cina, Russia e Turchia) a disputarsi lo spazio economico immenso di questo continente con quelli tradizionali, ma compaiano su una scena sempre più complessa un insieme variegato di nazioni e istituzioni internazionali, parte del processo di riassetto degli equilibri geoeconomici globali.
Il Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) è l’organizzazione formata nel 1981 dagli Stati che si affacciano sul Golfo Persico (Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar), per promuovere una più stretta collaborazione e integrazione su scala regionale in materia economica, sociale e culturale, fino alla creazione di un mercato e un’unità monetaria comuni. Il CCG rappresenta il canale essenziale per le relazioni dell’Unione Europea con questi Paesi e, peraltro, dispone di ingenti finanziamenti dei suoi membri per il continente africano, nel momento in cui i prestiti cinesi e gli aiuti occidentali sono meno sicuri e sembrano avere raggiunto il loro tetto massimo. L’attrattiva di tali risorse è dovuta anche alla velocità con cui i fondi possono essere forniti e agli scarsi vincoli fissati per il loro impiego, soprattutto rispetto alle istituzioni finanziarie dell’Occidente.
Si tratta di un soft power particolarmente rilevante, perché deriva da investimenti di carattere strategico e da un potenziale miglioramento delle condizioni di sicurezza, specie nelle aree del Corno d’Africa e del Mar Rosso. In questo modo, gli Stati arabi potrebbero assumere il ruolo di principali attori internazionali dell’iniziativa economica nei Paesi africani, espandendo la loro presenza in tutto il continente. Le aziende e gli investitori del CCG tendono a concentrarsi sulle industrie africane legate alle risorse energetiche (petrolio, gas e rinnovabili), alle miniere e all’agricoltura, ma anche sulle infrastrutture di trasporto, sui servizi logistici e sui comparti digitali. Secondo le stime riportate dall’EIU, il Consiglio di Cooperazione del Golfo ha investito oltre 100 miliardi di dollari in Africa negli ultimi dieci anni, ossia circa il 30% del totale degli investimenti diretti esteri (IDE). Mentre nel 2023 gli investimenti diretti indicati dai Paesi arabi per la realizzazione di nuove attività (greenfield) nei territori africani hanno raggiunto 53 miliardi di dollari, superando gli impegni delle imprese cinesi (35,5 miliardi), europee (38 miliardi) e statunitensi (10 miliardi).
Gli scambi tra CCG e Paesi africani sono cresciuti a un tasso dell’8% nel decennio fino al 2022, toccando 154 miliardi di dollari quell’anno. Questo risultato ha permesso di scavalcare il totale del commercio bilaterale con l’Africa degli Stati Uniti (74 miliardi di dollari) e dell’India (99 miliardi), nonché di recuperare il divario nei confronti dei medesimi traffici della Cina (289 miliardi) e dell’Europa occidentale (244 miliardi). Tale incremento di attività riguarda anche la partecipazione alla gestione dei porti e delle principali rotte logistiche da parte degli Stati del CCG in molti territori (Algeria, Egitto, Sudan, Eritrea, Somalia, Tanzania, Mozambico, Sud Africa, Angola, Repubblica Democratica del Congo, Congo-Brazzaville, Ruanda, Nigeria, Guinea e Senegal). La competizione dei Paesi arabi con i protagonisti dell’economia mondiale si sta svolgendo in tutti i settori e gli ambiti di convenienza del continente africano, sulla base di una combinazione pragmatica di “non intervento in stile cinese, costruzione di reti in stile russo e investimenti aziendali in stile occidentale”.
Questa originale analisi dell’Economist Intelligence Unit permette non solo di rivolgere l’attenzione a un nuovo gruppo di concorrenti che emerge sul proscenio globale, ma di considerare la necessità impellente dell’Europa di stare in gioco nella sfida attuale e l’opportunità per l’Italia e il Mezzogiorno di svolgere un ruolo significativo. Il mutamento degli assetti della geografia, della politica e dell’economia attraversa ormai un continente immediatamente prospiciente i confini del nostro mare, gravido di tensioni e contrasti aspri, e, al tempo stesso, al centro del prossimo sviluppo del mondo intero. Come ai tempi celebrati da Fernand Braudel, uno spazio mediterraneo allargato può trovarsi proiettato verso un nuovo destino ed essere chiave di volta dell’avvenire dei Paesi che lo circondano.
- Il ruolo aggiornato del G7 e la prospettiva globale dell’Africa
L’appuntamento del Gruppo dei Sette in Italia non poteva intraprendere un percorso del tutto innovativo, impraticabile per l’inattualità del suo modello e per le condizioni di debolezza di alcuni dei suoi esponenti, ma un primo segnale positivo è emerso. L’apertura al Sud globale e le conclusioni del G7 hanno mostrato non solo il proposito di ampliare una compagine pensata per un mondo diverso a nuovi protagonisti della scena internazionale, ma anche la necessità di sperimentare strategie inedite, in grado di cogliere gli snodi di una molteplicità di crisi interconnesse e di un contesto sempre più complesso, a cominciare dall’Africa e dal Mediterraneo. Le svolte della storia è difficile si preannuncino con largo anticipo, però, il lavorio indispensabile per renderne possibile un’altra ed evitare un brusco arretramento verso il passato richiede la consapevolezza del momento critico che sta attraversando il pianeta.
L’inizio di un confronto multilaterale, con la partecipazione di numerose rappresentanze esterne al G7 (Algeria, Argentina, Brasile, Emirati Arabi Uniti, Giordania, India, Kenya, Mauritania, Tunisia, Turchia e Santa Sede) e di alcune delle principali organizzazioni internazionali (Banca Africana di Sviluppo, Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, OCSE e ONU) ha confortato l’idea di un dialogo oltre le barriere tradizionali, facendo del rapporto con i partners del Sud il terreno su cui costruire relazioni globali maggiormente cooperative e soluzioni credibili all’attuale disordine mondiale. Il documento finale indica l’obiettivo di “una governance globale più efficace, inclusiva ed equa” di fronte a un mutamento epocale. È, tuttavia, l’impegno per l’Africa che può sostanziare una nuova direzione di marcia, con il sostegno all’operatività dell’Area di libero scambio continentale africana (AfCFTA), la collaborazione per il miglioramento della sicurezza alimentare, delle infrastrutture, del commercio e della produttività agricola e, in particolare, un significativo programma di interventi attraverso il Partenariato per le Infrastrutture e gli Investimenti Globali (PGII) dei Sette e il Global Gateway dell’Unione Europea. Il comunicato del G7 fornisce anche il dettaglio delle specifiche iniziative a favore dei Paesi africani, collegando il tema delle sfide globali a quello del progresso del Sud della terra.
Secondo un rapporto del McKinsey Global Institute dal titolo “Reinventare la crescita economica in Africa: trasformare la diversità in opportunità”, entro il 2050 il 25% degli abitanti della terra (2,5 miliardi) proverrà dall’Africa, che offrirà una molteplicità di occasioni per uno sviluppo robusto e inclusivo, mettendo a disposizione una ricca dotazione di risorse naturali e un abbondante potenziale umano – il 40% dei giovani sarà africano – per incrementare la prosperità non solo in quell’area, ma in tutto il mondo. Questo continente non è monolitico, rappresentando un’economia da tremila miliardi di dollari, con una popolazione di oltre 1,4 miliardi di persone, distribuita in 54 Paesi. In questa sterminata estensione, infatti, vi sono aree che crescono più della media complessiva da vent’anni, altre che hanno accelerato la loro performance nello scorso decennio, altre ancora che hanno rallentato recentemente il loro andamento e un ulteriore gruppo che fatica ad avanzare. Pressoché la metà dell’Africa si trova in Paesi collocati al di sopra della media, che costituiscono, però, solo un quarto del PIL totale. Il numero delle imprese che realizzano guadagni pari o superiori a 1 miliardo di dollari è di quasi 350 in tutto il continente.
Nonostante un quadro globale molto incerto e mutevole, le economie africane hanno rivelato una forte resilienza, ottenendo un aumento del PIL del 3,2% nel 2023, in calo rispetto al 4,1% del 2022, ma registrando una risalita a livello mondiale, che le porterà a una crescita media del 4% tra il 2024 e il 2025. Tuttavia, gran parte dei Paesi africani ha continuato a fare i conti con elevate pressioni inflazionistiche, accumulo di debito, disuguaglianze e povertà diffuse, condizioni sanitarie critiche, cambiamenti climatici ed eventi meteorologici estremi. Considerando un arco di tempo trentennale, si osserva che mentre negli anni Novanta il PIL è progredito del 2,7% e la popolazione del 12,7%, all’inizio del nuovo millennio il PIL è salito al 5,1%, dando abbrivo al periodo di “ripresa dell’Africa”, con un vorticoso incremento della produttività e un’impennata delle prime trenta economie africane. Negli ultimi anni si è verificata un’inversione di tendenza, con un indebolimento della produttività in ogni settore, patendo una crescita sostenuta prevalentemente dai prezzi delle materie prime e dagli investimenti diretti esteri.
Da questo punto di vista, è necessario introdurre consistenti novità, mediante la disseminazione dei processi di digitalizzazione e innovazione tecnologica, la formazione di competenze qualificate in linea con le esigenze di modernizzazione e ampliamento della struttura produttiva interna e la pressante domanda di talenti da parte del resto del mondo, l’innalzamento dell’efficienza dei servizi finanziari e degli investimenti in tutto il continente. L’Africa, inoltre, è un’enorme miniera di risorse strategiche, possedendo il 93% delle riserve di platino globali, quasi la metà di quelle di cobalto, manganese, rame e litio, essenziali per la transizione ambientale e climatica. Su questo versante, è nell’interesse dell’Europa un atteggiamento di grande apertura, che non punti allo sfruttamento del territorio africano, ma a un contributo al suo sviluppo, non lasciando a iniziative predatorie e convenienze geopolitiche cinesi, russe o arabe questo vasto spazio di crescita.
Basti pensare al fenomeno dell’urbanizzazione e all’espansione del mercato di consumo, per comprendere le straordinarie opportunità esistenti per una ripartizione di compiti e una complementarità tra l’economia dell’Africa e quella dell’Europa. Tornando, quindi agli obiettivi strategici italiani e comunitari, appare sempre più di fondamentale importanza l’idea di un New Deal nei rapporti tra questi due continenti, che non sono protagonisti del disaccoppiamento globale ma che, pur partendo da posizioni differenti, possono svolgere un ruolo chiave nello scacchiere economico mondiale. Essi, infatti, sono legati da un destino convergente, non solo per ragioni geografiche e di prossimità, condensate nelle prospettive dello scenario mediterraneo, ma per il grande impulso economico che può nascere dalla condivisione di un percorso di sviluppo e, chissà, anche per un’alleanza da costruire nell’ottica di un multipolarismo attivo e di pace nelle relazioni internazionali.
- Europa meridionale, longevità e crisi demografica
In un articolo dell’Economist dal titolo “Invecchiare insieme”, si valutano i motivi per i quali gli abitanti dei territori meridionali dell’Europa saranno presto tra i più longevi al mondo. La varietà della dieta e l’abitudine al movimento, ma anche la qualità della progettazione urbana e dei comportamenti sociali sono le caratteristiche più significative di un nuovo modello di vita sperimentato in questa parte del continente. Uno studio dell’Institute for Health Metrics and Evaluation dell’Università di Washington ha tratteggiato il panorama del carico di malattie in 204 Paesi tra il 2022 e il 2050, effettuando proiezioni sulla durata della vita in questo arco di tempo. La sorpresa è data dalla presenza nei venti principali “Paesi per vecchi” – Countries for Old Men, parafrasando il romanzo di Cormac McCarthy – non solo di aree più ricche (Svizzera, Singapore, Giappone e Corea del Sud), ma anche di un gruppo di territori meno opulenti di altri, composto da Spagna, Italia, Francia e Portogallo, con l’aggiunta di piccoli Stati quali San Marino, Malta e Andorra.
Da indagini di questo tipo emerge che, chiaramente, salute e longevità sono connesse al PIL pro capite. Ma le cause specifiche di maggiore benessere dell’Europa del Sud vanno ricercate in altre direzioni, superando il legame esclusivo tra ricchezza e salute. C’è chi sostiene che queste popolazioni oggi non si attengono alla “dieta mediterranea” e che, quindi, questa forma di alimentazione non può essere indicativa di loro migliori condizioni fisiche. Tuttavia, altri come Dan Buettner del National Geographic, uno degli ideatori delle “zone blu” – aree geografiche del mondo in cui la speranza di vita è considerevolmente più elevata rispetto alla media globale –, affermano che le abitudini in grado di forgiare persone di età sempre più avanzata risalgono a mezzo secolo fa, quando le popolazioni meridionali si nutrivano di pietanze contadine o seguivano una dieta basata su “cibi da carestia”.
Blue zones italiane sono il Cilento in Campania e la provincia di Nuoro in Sardegna, dove si concentrano un’ampia schiera di centenari che conducono uno stile di vita peculiare dell’area mediterranea. Da queste zone si è partito per delineare un paradigma socio-economico inedito, in qualche modo anticipatore della bioeconomia circolare. Merito della felice intuizione del sindaco di Pollica Angelo Vassallo, che, riprendendo l’insegnamento di Ancel Keys, riuscì a promuovere l’inserimento della dieta mediterranea tra i beni tutelati all’interno del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità. Con l’alimentazione, il movimento è un altro fattore di allungamento della vita, che risulta particolarmente rilevante in Spagna e, in genere, nei Paesi euromediterranei, in virtù dell’elevato numero di passeggiate e percorsi pedonali compiuti in questi territori.
Varie ricerche, inoltre, mostrano l’importanza fondamentale dei rapporti sociali, oltre che dei legami di amicizia e familiari, per il benessere fisico e psicologico. Anche questo è un aspetto peculiare dell’esistenza nei Paesi dell’Europa meridionale. La conformazione dei nuclei urbani del Sud, poi, con piazze e luoghi di ritrovo adatti per riunirsi, assistere a spettacoli, discutere, bere e mangiare insieme, rappresenta un ulteriore vantaggio in termini di godibilità e distensione della vita. A queste indicazioni, tuttavia, vanno aggiunte riflessioni di natura più strettamente demografica, che possono far cambiare l’angolazione da cui si guarda a questi fenomeni. Nei prossimi decenni si verificherà una consistente inversione di tendenza nella crescita della popolazione mondiale. L’Europa, che a inizio Novecento registrava il 24,7% della popolazione mondiale, scenderà al 7,2% nel 2050 e al 5,7% entro la fine del secolo. L’Africa, al contrario, passerà dall’8,1% della popolazione mondiale al 37,9%. Peraltro, secondo Niall Ferguson: “Considerando che quando Cristoforo Colombo sbarcò nel Nuovo Mondo esistevano appena 500 milioni di esseri umani, la proliferazione della specie homo sapiens nell’era moderna è stata un’impresa sorprendente”.
La popolazione mondiale ha superato attualmente gli 8 miliardi di persone e a fine secolo potrebbe raggiungere una punta di ben oltre 10 miliardi. Eppure, questo picco sarà molto probabilmente l’ultimo, fugando il timore di un disastro malthusiano venturo, ovvero di un eccesso di popolazione del tutto insostenibile per la terra. Infatti, dagli anni Settanta del secolo scorso, si è avviato un declino progressivo del tasso di fertilità totale, che sta diminuendo di Paese in Paese al di sotto della soglia (2,1 nascite per donna) di mantenimento dei livelli demografici esistenti. Non è solo la “vecchia” Europa a patire questo fenomeno, ma anche gli Stati Uniti, la Cina, molte altre aree asiatiche e mediorientali: il nostro pianeta, esclusa l’Africa, in particolare quella sub-sahariana, è già in contrazione. In Europa, i Paesi con maggiore popolazione, eccetto il Regno Unito, perderanno una quota consistente di residenti. Tra questi, l’Italia subirà un maggiore calo di abitanti. Del resto, più della metà dell’aumento previsto per la popolazione globale fino alla metà di questo secolo sarà concentrato in otto Paesi (Congo, Egitto, Etiopia, Filippine, India, Nigeria, Pakistan e Tanzania). Il tasso di fertilità totale si abbasserà da 2,3 nel 2021 a 1,8 nel 2100 e dal 2064 si prevede una discesa inesorabile.
Ferguson, sostenendo che il crollo demografico mondiale non è più fantascienza, conviene con l’idea degli esperti secondo cui la popolazione umana non si ridurrà gradualmente, ma quasi con la stessa rapidità della sua crescita passata. Il problema del futuro, quindi, sarà come contrastare le ripercussioni di una decrescita demografica sullo sviluppo economico e sulla vitalità sociale. D’altro canto, se la longevità va considerata un’opportunità, serve anche un sistema di welfare solido e aggiornato. Per la prima volta nella storia, nel 2018, gli over 65 hanno superato globalmente i bambini sotto i 5 anni. Inoltre, nel 2019, l’aspettativa mondiale di vita alla nascita ha toccato i 73 anni. In questo quadro, occorre offrire servizi sociali migliori per le famiglie e l’immigrazione qualificata, pena un andamento negativo irreversibile della natalità, per le persone anziane, in termini di qualità della vita, cura, assistenza e impiego delle tecnologie digitali, e per i giovani, in termini di promozione dell’ingresso nel mondo del lavoro e di accesso all’abitazione. Queste scelte da compiere, soprattutto per l’Italia, possono inserirsi nella prospettiva di fondo del rapporto con i Paesi meno sviluppati e con l’immensa frontiera dell’Africa attraverso un Piano Mattei sempre più organico e integrato nella nuova politica europea del Global Gateway.
- Conclusioni
Dal 2021 in poi è cresciuto l’interesse dell’Europa a sostenere piani di investimento verso l’Africa, i Paesi del Sud-Est del Pacifico e l’America Latina, manifestando non solo l’esigenza di intensificare i rapporti con queste aree del mondo e di aumentare la propria autonomia strategica, ma affrontando alcuni temi di fondo per il suo stesso futuro, che riguardano l’approvvigionamento delle materie prime, l’espansione delle rotte commerciali e la costruzione di un nuovo paradigma economico e produttivo. Inoltre, la notevole incertezza che caratterizza il sistema geopolitico mondiale e l’ampliamento degli scenari di guerra ha reso indispensabile una strategia e un intervento specifico dell’Unione Europea nello scacchiere internazionale, corredati da una rinnovata capacità di tessere relazioni e proporre soluzioni politiche. In questo contesto, il Mediterraneo è diventato nuovamente, dopo molto tempo, un baricentro fondamentale per i traffici, le comunicazioni, il trasporto e la logistica, oltre che per lo sviluppo dell’industria e delle infrastrutture nei territori che lo lambiscono e in altre zone circostanti. Al tempo stesso, questo vasto spazio costituisce il teatro di flussi migratori ininterrotti e di una competizione tra un insieme composito di Paesi, che rischia di essere sempre più sbilanciato verso Oriente. Anche per questa ragione, il ruolo dell’Europa non può essere quello di un semplice comprimario o rappresentare la somma delle iniziative dei suoi singoli Paesi. Occorre definire un orizzonte unitario e un’agenda di lunga durata dell’azione continentale in direzione di una parte essenziale del pianeta.
Nel discorso programmatico del 18 luglio scorso, intitolato non a caso “Europe’s choice”, Ursula von der Leyen, ha posto in evidenza la necessità di “un’Unione che sia più veloce e più semplice, più mirata e più unita, più solidale con le persone e le imprese” e “che agisca dove apporta valore aggiunto”. Tra le priorità delle linee guida dell’impegno di lavoro per i prossimi cinque anni, la Presidente della Commissione Europea ha indicato una strategia europea in materia di migrazione e asilo, rafforzando le relazioni con i Paesi di origine e transito, e ha prospettato un abbinamento tra le competenze dei cittadini del Sud globale e le lacune del mercato del lavoro in Europa, rendendo possibile l’attrazione di talenti con norme armonizzate sul riconoscimento delle loro qualifiche. Inoltre, ha comunicato la sua intenzione di nominare un commissario per il Mediterraneo, che si dovrà concentrare su investimenti e partenariati, stabilità economica, creazione di posti di lavoro, energia, sicurezza, migrazione e altre materie di interesse comune, “rispettando i nostri valori e principi”. In questo quadro, la von der Leyen ha proposto “un approccio più mirato verso il nostro vicinato più ampio” allo scopo di realizzare un nuovo “Patto per il Mediterraneo”, non avulso da un ruolo attivo dell’Europa in Medio Oriente, per fornire “un chiaro segnale politico di partenariato in un mondo più contestato e instabile”.
Partendo da questi presupposti, i prossimi anni potrebbero essere decisivi, non solo per una proiezione dell’Unione Europea verso il Sud del mondo, ma anche per un indirizzo organico nella sua politica estera e nella sua partecipazione al riassetto geopolitico globale, colmando un vuoto sulla scena internazionale. Una presenza incisiva dell’Europa in questo campo contribuirebbe a rendere più stabile la situazione del pianeta e a mitigare fortemente la rincorsa ai conflitti, ponendosi al centro del confronto in tempi molto difficili. I tre assi centrali di questa strategia europea saranno la sicurezza economica, il commercio e gli investimenti nei partenariati attraverso il Global Gateway. Quest’ultimo, in particolare, servirà a guidare gli investimenti nei corridoi di trasporto, nei porti, nella produzione di energia rinnovabile e di idrogeno verde, nelle catene del valore delle materie prime. Infine, l’obiettivo di una riorganizzazione del multilateralismo tende a ripristinare un ordine globale basato su valori e regole, ma anche a dare impulso a un ruolo europeo di guida nella riforma del sistema delle relazioni internazionali. In conclusione, la nuova stagione dell’Unione Europea è destinata ad affrontare questioni determinanti per il futuro del mondo, operando una profonda svolta nel suo modo di agire, nelle sue strategie e nei suoi programmi, nel suo protagonismo, rivolgendo lo sguardo verso Sud: Mediterraneo, Africa e Medio Oriente. I Paesi meridionali dell’Europa e l’Italia con il suo Mezzogiorno potranno svolgere una funzione di grande importanza e qualificarsi come cerniera vitale di questo nuovo sconfinato spazio “euromediterraneo” solo se riusciranno a integrarsi pienamente in questa prospettiva unitaria e a svolgere una condotta sinergica con le istituzioni comunitarie.
Professore Ordinario di Storia Economica, Università della Campania Luigi Vanvitelli, Luiss Guido Carli