Dal crollo della Silicon Valley Bank negli Usa a quello del Credit Suisse in Europa

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di Achille Flora

Due crolli d’istituti bancari negli Usa, con la SVB, e in Europa, con il Credit Suisse, hanno acceso il campanello d’allarme sull’instabilità dei mercati finanziari. I due casi sono molto diversi tra loro, ma entrambi hanno in comune gli effetti delle politiche monetarie restrittive, attuate dalla Banche Centrali per frenare l’inflazione attiva su scala internazionale.
Il crollo della SVB ha molti padri. In primis errori di gestione di questa banca, concentrando le proprie attività in un solo comparto produttivo (quello di start-up) senza alcuna diversificazione plurisettoriale; la mancata corrispondenza temporale tra depositi a breve e impieghi a lungo termine in obbligazioni governative; analogamente, la prudenza è mancata anche alla loro clientela, depositando mezzi finanziari oltre il limite di 250mila dollari, entro il quale vigeva la copertura assicurativa.
Nel caso del Credit Suisse, una grande banca con relazioni sistemiche con altri istituti finanziari, la sua storia è fatta di rapporti opachi con dittatori, oligarchi e organizzazioni criminali di cui ricicla i proventi di cui accetta fondi senza farsi troppe domande e coinvolta in diversi scandali, pescando nel “lato oscuro della globalizzazione”. Una banca che non ricade sotto il controllo della BCE né nelle regole dell’Eurozona. Deflagrato l’allarme sulla tenuta della banca gli effetti si sono riverberati in una fuga dai titoli bancari e nel crollo dei titoli azionari europei. L’innesco è stato dato dalla dichiarazione del suo maggiore azionista, la Saudi National Bank, principale azionista del Credit Suisse, che ha escluso ulteriori interventi di sostegno finanziario alla banca svizzera, dopo la ricapitalizzazione di dicembre scorso.
Per entrambe è da rilevare una carenza di vigilanza, per la SVB per scelta governativa esentando le banche regionali, con asset entro i 250 miliardi di dollari, dai più stringenti requisiti di capitale validi per le banche maggiori; per la banca svizzera, una vigilanza che non è entrata nel merito della tipologia di clientela, né ne ha monitorato la strategia d’investimento. In entrambi i casi trattasi di una crisi di liquidità, accelerata dall’utilizzo da parte della clientela di un rapporto digitale con le banche che ha consentito alla clientela di accelerare il fenomeno del bank run, la corsa a ritirare i depositi, in poche ore anziché i giorni richiesti dal rapporto fisico.
Il risultato è che non c’è stato e non ci sarà alcun fallimento, poiché entrambe le banche sono state salvate da interventi delle banche centrali, sostenendone la liquidità e attivandosi affinché le banche in difficoltà venissero rilevate da banche sane.
Resta l’elemento maggiormente preoccupante per la stabilità finanziaria internazionale che è dato dagli effetti del varo di politiche monetarie restrittive in chiave antinflazionistica, con l’aumento dei tassi d’interesse che impattano sul valore dei titoli obbligazionari, titoli sovrani su tutti, aumentandone i rendimenti e abbassandone il prezzo o valore attuale.
Nel mio articolo sul Denaro, del 13 marzo scorso, scritto a caldo del crollo della SVB, avevo individuato il pericolo maggiore per l’Europa, nella perdita di valore dei titoli sovrani, in conseguenza dell’aumento dei tassi disposti dalle maggiori banche centrali. Un fenomeno preoccupante, non solo perché si aggiunge all’instabilità provocata dall’esistenza dello shadow banking, il sistema bancario ombra in continua crescita, tanto da aver superato il credito bancario nel finanziamento delle imprese, ma soprattutto per le dimensioni raggiunte dall’ammontare di titoli governativi nei bilanci bancari che hanno raggiunto, nel 2022, la cifra di 3.300 miliardi di euro.
Le banche europee sono solide, rispettando i requisiti patrimoniali di Basilea 3. Non devono temere contagi finanziari provenienti da altre aree. Non vorrei, però, che la sottovalutazione, da parte della BCE, degli effetti delle sue politiche monetarie restrittive sul sistema bancario europeo, per combattere un’inflazione che non dipende, come negli USA, da un surriscaldamento della domanda ma è importata dall’aumento del prezzo delle risorse energetiche, finisse per minare al suo interno gli equilibri del sistema bancario.
L’ulteriore aumento del tasso di altro 0,50 deciso dopo le recenti crisi bancarie, esterne alla UE, dice che la BCE intende proseguire nella sua manovra di stretta finanziaria senza preoccuparsi delle conseguenze. C’è solo da sperare che abbia ragione.