Dalì, quando l’artista offre l’interpretazione di se stesso. Occasione facile ma perduta

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Da qualche giorno la gigantografia del volto di Salvator Dalì incombe sul traffico di via dei Mille, la strada elegante della città. Eleganza? Il supermercato distante pochi metri dal Museo Pan ha un insegna molto più discreta. Sembra quasi che il paradigma assunto sia stato: più grande l’insegna, più pubblico è attirato. Chissà. Se così fosse per i musei più visitati al mondo, le mostre più affollate dovrebbero avere cartelloni giganteschi. La domanda è: basta la mega foto del volto stralunato dell’artista ad attirare il pubblico e a prepararlo all’incontro con la sua paranoia critica? Le presentazioni della mostra l’hanno descritta come un indagine che dovrebbe condurre il visitatore nella vita segreta del genio. Qualche opera, tante foto di momenti speciali della sua vita, e tanti video. E per concludere un filmone di 55 minuti. Dalla descrizione potrebbe sembrare una mostra strutturata secondo principi e tecnologie molto moderni . Poi dai uno sguardo all’esposizione. Un infinità di cartelloni che illustrano quasi anno per anno tutti gli eventi importanti della sua vita. Alcuni video che testimoniano le sue collaborazioni più importanti. Ah ecco. Era stata annunciata una mostra che suscitasse l’interesse dei bambini. Forse il contatto per l’infanzia sono i film Fantasia e Destino realizzati con Walt Disney. Ai bambini però cosa resta? Che uno strano signore dai baffi a punta ha creato le figure del film. Ok mamma, voglio il gelato. Conclusione: Si percepisce Dalì come una persona sicuramente geniale, un ottimo auto promotore dai contatti importanti. Si osserva, si leggono informazioni, si guardano video e, avendo voglia e tempo per assistere ad una lunga proiezione, la si guarda. Emozione? Non pervenuta. Un bel documentario, magari in tv, basta e avanza. Un personaggio come Dalì, le sue visioni, bizzarrie, i suoi capricci che attraverso l’analisi critica diventano l’arte che lui dona al mondo? L’orrore e la paura del Dalì bambino, impressionato dalle formiche che divoravano il pipistrello morto, che l’adulto rielabora e getta sulla tela nella pioggia di formiche che ricordano la mortalità dell’uomo? Oppure l’emozione del formaggio camembert sciolto che fu tradotta nei famosi orologi molli? Per una mostra su Dalì non c’è bisogno d’interpretare. L’artista stesso offre la sua interpretazione come un istantanea a colori di ciò che esiste d’irrazionale. Non ci voleva molto. A cominciare dall’ingresso. Se un immagine grande e forte doveva essere offerta ai passanti, perché non usare il volto quale ingresso alla mostra? La foto come un portone attraverso cui far passare fisicamente il visitatore, farlo entrare dentro l’artista. La materializzazione dello scopo della mostra enunciato nelle presentazioni. Proiezioni, foto o quinte sceniche. Le possibilità rappresentative non mancano e sarebbero state meno offensive per un artista di questa specificità di un cartellone da ipermercato. Le didascalie. Ancora una volta la mostra è per gli italiani o cultori della lingua perché la maggioranza delle informazioni è solo in italiano. Non si era forse sottolineato il carattere internazionale dell’esposizione? Se compro un orologio in Francia non è detto che io parli questa lingua.