Dante Alighieri a 700 anni dalla morte: riflessioni sul divino poeta dopo una conferenza ad Anacapri

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in foto il pavimento della chiesa di San Michele Arcangelo ad Anacapri, con il pavimento maiolicato in cui è raffigurato il Paradiso terrestre

di Maria Carla Tartarone Realfonzo

Nel 2021 si ricorderanno i settecento anni dalla morte di Dante Alighieri, sommo, universale poeta, ma già lo si rammenta, ricordato dal nostro Presidente della Repubblica Mattarella. Già nell’agosto scorso una conferenza della professoressa Marianna Esposito Vinzi , nella Chiesa Parrocchiale di Anacapri, aveva aperto le ricerche sul poeta parlando della Cantica del Paradiso nella Divina Commedia in cui è ricordato con amore e riverenza San Francesco. Approfondendo la ricerca su Dante mi sono meglio resa conto del poeta, dell’uomo, della sua vita difficile, dei suoi insegnamenti morali fondamentali oltre che della sua straordinaria poesia. Dante Alighieri nacque a Firenze nel 1265 da famiglia di nobili origini. Da bambino frequentò la scuola prima nel convento francescano di Santa Croce poi presso Santa Maria Novella. Purtroppo Il padre morì lasciando i due giovani figli, Dante e Francesco, in condizioni economiche ristrette. Ma Dante continuò i suoi studi. In gioventù conobbe Guido Cavalcanti e Guido Guinizzelli dalle rime “dolci e leggiadre”, poeti del “dolce stil novo” e prese a rimare stimolato da un istinto indomabile la cui ispirazione fondamentale era la donna angelicata e l’amore quale veicolo di perfezione, attento diffusore della lingua letteraria che dall’aulico latino andava trasformandosi in elegante volgare . Si diffondeva tra i letterati Il “dolce stil novo”, uno stile poetico che si compì nel corso di una generazione, quella della giovinezza di Dante (1270-1310) quando Dante nelle sue rime ricordava Beatrice morta nel 1290. Come apprendiamo anche nel “Convivio“ egli non cessò mai di ricordarla come “somma sapienza” e “primo amore” guida verso Dio. Dante inoltre cominciò presto a partecipare anche alla vita politica della sua Firenze: Nel 1289 prese parte alla guerra dei Guelfi contro i Ghibellini. Fu tra i cavalieri per onorare Carlo Martello da cui ricevette attestazioni di simpatia (di cui fa cenno nel Paradiso). Si sposò presto con Gemma Donati da cui ebbe tre figli, Iacopo, Pietro e Antonia. A Firenze, tra i venti e i trent’anni, partecipò intensamente alla vita culturale della città difendendo il volgare, continuando i suoi scritti e i suoi studi filosofici. Si iniziò all’”ars dictandi” dietro la guida di Brunetto Latini, strinse amicizia con Giotto, Oderisi da Gubbio, il musico Casella e con uomini di corte. Buona parte delle sue rime erano dedicate a Beatrice, raccolte anche nella “Vita Nova” una sorta di scritto autobiografico. Egli aveva conosciuto Beatrice a nove anni e poi l’aveva rivista a diciotto anni. E Beatrice lo salutò. Quando poi Beatrice smise di salutarlo egli addolorato prese ad approfondire i suoi studi di latino e di filosofia. Poi, dal 1295, fece politica attiva, per ciò si iscrisse alla Corporazione dei Medici e Speziali. Nel 1295 fu tra i Savi consultati per l’elezione dei Priori. Nel 1296 appartenne al Consiglio dei Cento che deliberava le spese della città. Nel maggio del 1300 fu inviato ambasciatore a San Gimignano per ottenere l’adesione di quel Comune in un momento difficile. Vi fu eletto Priore ma si rese conto ben presto della debolezza di quel comune e vi rimase un solo bimestre (giugno-agosto). In quel tempo la maggiore minaccia alla libertà comunale di Firenze era costituita dal Pontefice Bonifacio VIII che tendeva ad assicurare alla Chiesa l’egemonia sui comuni dell’Italia Centrale, in particolare sulla Toscana. All’interno di Firenze la lotta politica era tra due famiglie, I Cerchi e i Donati (Bianchi e Neri). Attorno ai Cerchi erano i ghibellini che Dante disdegnava giudicandoli poco energici. Nell’ottobre 1301 si accostò a Firenze Carlo di Valois mandato dal Papa, per sedare la lotta tra Bianchi e Neri. Dante fu uno dei tre ambasciatori mandati dalla Signoria di Firenze al Papa da cui Dante fu trattenuto. Intanto Carlo di Valois consegnava ai Neri, il cui capo era Corso Donati, il governo del comune di Firenze. Dante non tornò a Firenze ma preferì andare a Siena dove gli giunse la notizia di essere stato condannato, in contumacia, (27 gennaio 1302) all’esilio per 2 anni e all’esclusione perpetua dagli uffici. Non essendosi presentato a pagare l’ammenda e a scolparsi fu condannato al rogo. Cominciò il suo esilio, dapprima affiliato agli altri fuoriusciti, poi da solo, dal 1304 “quasi mendicando”. Il primo rifugio fu a Verona presso gli Scaligeri, poi a Treviso. Nel 1306 era in Lunigiana ospite di Morello Malaspina, ma pungente era la nostalgia per la sua Firenze e la preoccupazione per i figli anch’essi mandati in esilio con un provvedimento del 1303. Fu in quegli anni che cominciò a scrivere il “Convivio” e il “De vulgari eloquentia” . Nl 1310 discese in Italia Arrigo VII di Lussemburgo col consenso di Papa Clemente V che lo considerava un sovrano pacifico e giusto. L’avvento di Arrigo VII dette grandi speranze a Dante, ma ben presto il fallimento di Arrigo (la rottura tra la Chiesa e l’Impero) lo sconvolse perché era stato escluso dalla amnistia concessa dal Comune di Firenze agli esuli guelfi (1311). Nel 1315 Dante rifiutò l’amnistia concessagli da Firenze, che esigeva che si dichiarasse colpevole e per le condizioni troppo umilianti previste. Perciò la condanna all’esilio fu estesa a tutta la famiglia. Di questi problemi Dante accenna ne “La Monarchia”, nell’epistola ai Cardinali italiani, ed anche nelle invettive ne “Il Purgatorio” e ne “Il Paradiso”. La Signoria fiorentina ribadirà la condanna a morte contro di lui e i suoi figli. Il suo problema politico si convertì in una missione religiosa già in lui sentita, di cui sono testimoni i suoi scritti. Dopo la morte di Arrigo VII Dante accettò l’ospitalità di Cangrande a Verona come si legge nell’epistola a lui dedicata nella terza cantica del Poema allora appena iniziato. A Verona era ancora nel gennaio del 1320 mantenendo ottimi rapporti con Cangrande cui mandava tutti i canti del Paradiso a mano a mano che li componeva. Poi passò a Ravenna sotto a protezione di Guido Novello da Polenta da cui fu mandato come ambasciatore a Venezia. Aveva appena finito di comporre “La Divina Commedia”. Sulla via del ritorno ebbe un grave malore e morì, il 13-14 settembre del 1321. Seguendo Dante fin dalle iniziali “rime “ e dalle “rime petrose” si può comprendere come la serietà e la grandezza dell’impegno artistico coincidesse con la serietà straordinaria dell’impegno morale.