Debutto del Premier tra i “grandi” che guardano l’Italia con sufficienza

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in foto Giuseppe Conte

La nave del governo M5S-Lega, incassata la fiducia dei due rami del Parlamento, naviga già in mare aperto dove, però, i marosi ingrossano via via. Insomma, sapremo presto – da come, cioè, saranno affrontati i primi moti ondosi – se il nocchiere e la tolda di comando sono all’altezza del compito che si sono dati.
Per il premier Giuseppe Conte, intanto, ancor prima della confidenza con la complicata macchina dello Stato, c’è già il debutto tra i grandi della terra: al G7 in Canada il nostro è stato accolto con la simpatia che è dovuta alla matricola, nulla di più. L’Italia, infatti, è guardata con sufficienza, paradossalmente, soprattutto dai Paesi che condividono l’esperienza comunitaria europea (Germania e Francia, per intenderci) con i quali dovrebbe esserci una logica di squadra, ma così non è, come tutti sappiamo o pensiamo. Mentre con l’alleato americano permane in ogni caso l’ombra dei rapporti con la Russia, in particolare del vice premier Matteo Salvini e del suo partito (Lega).
Sul fronte interno, invece, il cammino per ora non ha incontrato grandi ostacoli (che sono comunque dietro l’angolo) sicché, dopo la prima alzata di scudi, si registrano anche le prime aperture di credito. Timide, ma ci sono. Parlando, per esempio, all’Assemblea di Confcommercio l’altro vice premier e azionista di maggioranza dell’esecutivo, il leader cinque stelle Luigi Di Maio, su due punti è stato netto: 1) l’iva non aumenterà; 2) dovrà essere lo Stato a dimostrare l’evasione, non più il contribuente. Rassicurazioni che la platea, per ovvi motivi di categoria, ha gradito non poco.
E apertura di credito al nuovo esecutivo viene pure dal mondo confindustriale. Precisiamo: dai giovani, perché i senior si sentono ancora orfani del ministro Carlo Calenda. Un’apertura, se non altro – ha precisato il presidente Alessio Rossi dalla tribuna di Rapallo – “per affinità generazionali. L’età media dei ministri si è abbassata e c’è stato un rinnovamento della classe dirigente”. Ovviamente, i paletti restano: “Non vanno messi a rischio i conti del Paese”, aggiungono i giovani industriali, “e bisogna fare Tav e Terzo valico”. Ecco, si parlava di ostacoli, appunto.
Peraltro, sempre dalle assise dei commercianti è squillato un campanello di allarme che non va trascurato: “L’economia italiana è in rallentamento e sta peggiorando anche il clima di fiducia”. E non si tratta – si badi – della solita lamentela cui, ogni anno, puntualmente si abbandona il presidente Carlo Sangalli. Scrive infatti l’Istat: “Prosegue la flessione dell’indicatore anticipatore suggerendo, per i prossimi mesi, una fase di rallentamento dei ritmi produttivi”. Perché se è vero che “l’indice Pmi che monitora il settore dei servizi in Italia è salito a maggio a 53,1 punti da 52,6 punti di aprile”, è anche vero che “l’indice composito che include anche l’andamento dell’attività manifatturiera è rimasto invariato a 52,9 punti”. Non solo, “il rallentamento è anche più marcato del previsto nell’Eurozona dove è sceso a 53,8 da 54,7 di aprile, per la frenata del settore dei servizi in Francia e soprattutto in Germania, dove l’indice è sceso ai minimi da 20 mesi (a 52,1 punti da 53 di aprile)”.
E poi ci sono i soliti macigni che incombono, a cominciare dallo spread, che è tornato ad alzare la cresta in questo fine settimana (al momento segna 264 punti) e tutto ciò che ruota intorno alla moneta unica, argomento – come si sa – totem e tabù di questa coalizione di governo. Non ultime le banche.
Insomma, la Bce ha annunciato la fine del piano Draghi. Il capoeconomista Peter Praet ha infatti annunciato che la prossima settimana, nella riunione mensile dei governatori dell’area euro di Riga, si deciderà il destino del programma di acquisti di titoli pubblici iniziato nel 2015. Sicché, piaccia o non, il momento del “redde rationem” è arrivato. Non solo per lo Stato, ma anche per le banche.
Anzi, con riguardo a queste ultime, va detto che la crisi che ha colpito dieci banche italiane ha lasciato non solo causato perdite ad azionisti e obbligazionisti, esborso di soldi pubblici e posti di lavoro persi, ma anche un forte senso di frustrazione nell’opinione pubblica. Secondo il sindacato First Cisl, infatti, le sanzioni inflitte a manager e istituti bancari finiti in crisi dal 2011 sono state di solo 67 milioni di euro, mentre le perdite complessive 28 miliardi. Ciò però non ha impedito agli stessi vertici di spartirsi bonus per 113 milioni di euro.
E non venitemi a parlarmi ancora di populismo.

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