Il delitto Moro e l’epoca dei grandi statisti che non tornerà più

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In foto Aldo Moro
1.
Sono quarant’anni che, di questi tempi, veniva rapito Aldo Moro, poi, dopo cinquantacinque giorni di angosciosa prigionia, barbaramente assassinato. I più illustri storici e politologi stanno trattando di quel tempo tragico, delle “ragioni” del rapimento e dell’assassinio da parte delle Brigate Rosse, che tennero in scacco lo Stato, all’ombra della strategia della fermezza voluta dal PCI, condivisa dalla DC, in spregio di quella umanitaria, della cosiddetta trattativa, sostenuta dai Socialisti e da Bettino Craxi, subito insultati. Anche dalla DC, che, solo qualche anno dopo, “trattò” , oh se trattò!, con le Brigate Rosse e con la Camorra per liberare Ciro Cirillo. La occasione, comunque, è propizia per parlare della figura di Aldo Moro e del suo ruolo nella politica italiana. Dalla Costituente alla sua morte. Altri, e ben più autorevolmente, hanno illustrato il suo percorso, ma, stranamente, lo hanno circoscritto ai suoi primi passi da giovane “costituente “, saltando direttamente alla sua intuizione del “compromesso storico” ed al suo rapporto con Enrico Berlinguer. Forse, ma è solo un mio pensiero, perché si riconduce a questa “strategia” la causa della sua morte. Eppure Moro fu anche altro, ben altro. Sia nella Dc, della cui “funzione” nel sistema politico italiano fu strenuo difensore (chi non ricorda il suo fiero ed arrogante “Non ci faremo processare nelle piazze” al tempo dello scandalo Lockeed?!), che nella politica italiana. Fu lui il Presidente del Consiglio del primo governo di Centro-Sinistra, di cui fu vice-presidente Pietro Nenni, che tenacemente aveva voluto condurre il PSI al governo del Paese dopo la rottura con il PCI, determinata dai carri armati sovietici a Budapest, che spensero nel sangue gli aneliti di libertà degli Ungheresi. Mentre i comunisti non osarono dissentire dalla feroce strategia liberticida dell’Unione Sovietica. Aldo Moro aveva preparato, con un discorso di oltre sei ore al Congresso di Napoli, il suo Partito alla svolta di centro-sinistra. Per questo forse fu preferito ad Amintore Fanfani, che concretamente aveva favorito quella svolta realizzando, con il suo governo, la nazionalizzazione dell’energia elettrica. Una grande riforma di struttura, che i Socialisti avevano “preteso” prima di entrare al governo come garanzia della volontà riformatrice della Dc. Eppure dopo le elezioni del 1963, la Dc volle Aldo Moro a guidare quel primo governo, che fu autenticamente riformatore e mise in cantiere la realizzazione delle Regioni, secondo il dettato costituzionale, la riforma sanitaria, quella della scuola e quindi lo Statuto dei Lavoratori. Moro, comunque, capace di grandi disegni e di forti intuizioni, sul piano squisitamente governativo ed operativo, al contrario di Fanfani era lento, molto lento. Anche per questo, forse, la DC lo preferì a Fanfani: per addormentare la spinta riformatrice che Fanfani, corrispondendo agli “ardori” dei socialisti, aveva impresso al nascente Centro-Sinistra. Moro era capace di leggere i tempi e di anticiparli. In questo senso, per certi versi, era “atipico” in un partito come la DC, che i tempi amava gestirli, più che anticiparli. Per questo era temuto, credo anche sul piano internazionale, dalle forze della conservazione. Un solo esempio relativo ad un momento particolare della vita politica italiana: nel dicembre del 1971, in occasione della elezione di Giovanni Leone alla Presidenza della Repubblica, avvenuta con il sostegno determinante del Movimento Sociale di Giorgio Almirante, Pietro Nenni venne battuto perché i Socialdemocratici di Giuseppe Saragat ed i Repubblicani di Giorgio La Malfa condivisero la svolta a destra della DC, che poi determinerà la fine della stagione del Centro-Sinistra con il varo del governo Andreotti-Malagodi. Pietro Nenni, rispondendo ad una delle mie “provocazioni”, il 19 gennaio del 1972 mi scrive: “Meglio ormai non tornare sulla vicenda presidenziale. Ci sono le grosse responsabilità assunte dai socialdemocratici e dai repubblicani. Ma c’è stato anche un errore di impostazione e di prospettive del nostro Partito e dei comunisti. Basti pensare che si votava De Martino o Nenni e si pensava Moro, si pensava cioè ad una ipotesi assai più difficile da realizzare per la nostra stessa vittoria, per improbabile che fosse…”. Evidentemente Nenni sapeva quale rottura poteva rappresentare per la DC una eventuale elezione di Moro alla Presidenza della Repubblica. Era il 1972. Tutto quanto di drammatico accadde nei sei anni successivi portò Moro ad essere il protagonista del “compromesso storico” , l’incontro tra la DC ed il PCI , che escludeva il PSI. Però il governo sarebbe stato guidato da Giulio Andreotti, lo stesso che aveva presieduto il governo di centro-destra del 1972. Il rapimento, e l’assassinio, di Aldo Moro interruppe brutalmente quel disegno . E la DC sposò la strategia della fermezza, che segnò la fine, anche fisica, di Aldo Moro.

2.
Mi domando che senso abbia parlare, come fa quotidianamente tutta la grande stampa, di questa tragedia, che marchiò a fuoco il corso della Politica italiana, quando la Politica stessa è praticamente finita. E con essa la prospettiva di grandi disegni, come quelli di cui era capace, a prescindere dalle valutazioni, Aldo Moro. Siamo agli accomodamenti tattici fra due forze, quelle vincitrici, La Lega ed Il Movimento Cinque Stelle, fintamente alternative, ma sostanzialmente “omogenee” nella carica dirompente anti sistema, che comprende una buona dose di anti europeismo. All’insegna di una “strategia” comune: aumentare la spesa (tra reddito di cittadinanza e tasse al 15%) e… contenere il debito. Esilarante. Mi ha commosso Pierre Carniti: pur nelle sue dolorose condizioni, martedì 20, quando con Vittorio Ciccarelli e Pino Rosati siamo andati a fargli visita, dopo aver lucidamente descritto lo “stato dell’arte”, ci ha raccomandato di non abbandonare il campo di quelle lotte e quei Valori che hanno segnato la vita sua, e la nostra, insieme a quella di una intera generazione. Con tristezza mi sono permesso di ricordare che ormai il “campo” è cambiato e gli obbiettivi sociali pure. Mentre, e qui tutti abbiamo convenuto, le diseguaglianze crescono e con esse il numero dei diseguali. Ma tutto questo sembra non interessi a molti.