Basta con le vecchie “autorità portuali”, nascono le “Autorità di sistema portuale”. Le prime erano 24, le seconde saranno, salvo eventuali modifiche dell’ultima ora, 9 di cui 5 nel centro-nord e 4 nel Mezzogiorno (Campana: Napoli, Salerno; Pugliese: Bari, Brindisi, Taranto, Manfredonia; Calabra e dello Stretto: Gioia Tauro, Messina; Siciliana: Palermo, Catania, Augusta). E’ indiscutibile che questa riforma, quando, e se, arriverà a completa e definitiva approvazione, darà un nuovo volto al sistema della portualità e della logistica, nel nostro Paese. Sia sotto il profilo economico e gestionale che quello amministrativo e della semplificazione organizzativa ed operativa. Gli accorpamenti, e, la conseguente drastica riduzione delle Autorità portuali, dovrebbero (il condizionale, è d’obbligo) contribuire a ridurre le spese generali della portualità italiana, collaborando – allo stesso tempo – a scioglierne nodi e gli eccessi burocratici che ne appesantiscono gli iter procedurali, diversificandone i modelli operativi, moltiplicandone le inefficienze e, quindi, i costi a carico delle compagnie di navigazione, sia sul fronte del trasporto viaggiatori che di quello merci. Condivisibili, inoltre, le proposte di istituire in ogni porto attualmente sede di Autorità portuale, un ufficio dell’Autorità di sistema portuale e che nelle regioni, vedi quelle meridionali, destinatarie dei Fondi europei, Fesr, siano le Adsp a programmare le opere ed a definire le modalità di gestione delle risorse europee per gli interventi all’interno delle aree logistiche integrate della propria circoscrizione. Un po’ meno condivisibile, invece, il fatto che i presidenti delle nascenti Adsp sia di competenza del ministro, con il rischio di trasformare il sistema della “portualità e logistica” in un’altra esclusività del governo centrale che potrà utilizzarla a proprio uso e consumo, senza doverne dare conto a chicchessia, con il rischio che, anche in questo comparto, ad esserne penalizzato siano, more solito, i porti del Sud e, di conseguenza, l’Italia del tacco. Proprio quelli, cioè, che grazie alla propria posizione strategica all’interno del Mediterraneo – i cui traffici merci sono cresciuti di ben il 123% negli ultimi 13 anni – è oggi con il 33,7 di valore aggiunto (14,7mld di euro); movimentando il 45,7% del traffico container ed il 47% di quello merci ed, infine, il cui 60% (55mld di euro) d’interscambio si produce via mare, è già oggi il primo partner commerciale dei Paesi del bacino e che, da una riforma equilibrata del sistema di portualità e logistica, avrebbe tutto da guadagnare. Soprattutto, in vista, dell’eventuale realizzazione dell’allungamento del corridoio balcanico dall’Adriatico al Tirreno, ma anche in conseguenza del raddoppio del Canale di Suez. Occorrerebbe, però, una riforma che, oltre all’accorpamento ed al modello di govenance, possibilmente – a differenza di quanto previsto dal decreto, non autoritario e centralizzante, puntasse ad unificare il modello di gestione ed utilizzo degli spazi all’interno dei porti, tenesse conto anche delle potenzialità di quelli minori, dell’esigenza di modernizzazione e di rafforzamento delle infrastrutture, per renderli competitivi con la concorrenza internazionale, attraverso – così come sottolineato da Svimez, nel rapporto sull’economia del Mezzogiorno 2013 – l’istituzione di “zone economiche speciali” nelle vicinanze dei porti meridionali di maggiori dimensioni. In pratica, l’istituzione delle cosiddette “zone franche”, attrezzandole con le infrastrutture industriali e civili, materiali ed immateriali necessarie alla loro funzionalità, e non solo relativamente alla movimentazione delle merci, ma anche alla loro lavorazione e trasformazione, contenendo entro limiti sostanzialmente bassa la tassazione sugli utili delle aziende che vi si insediano; concedere alle stesse la possibilità di ammortizzare fiscalmente l’intero importo sostenuto per la realizzazione di impianti e strutture operative nonchè, esentandole dal pagamento dell’Iva sulle importazioni e sugli acquisti di merce da altre società ubicate nella stessa zona franca; il potenziamento delle cosiddette “autostrade del mare”, operando nella logica delle filiere portuali, attrezzando i porti interessati per l’importazione di materie prime e semilavorati, la loro lavorazione e la successiva esportazione. Il che produrrebbe nuovo valore aggiunto ed occupazione. Inutile aggiungere che i comparti produttivi che maggiormente potrebbero trarre vantaggio da simile opportunità, sarebbero quelli dell’agroalimentare e conserviero, dell’utensileria, della meccanica, dell’aerospaziale e dell’hi-tech.