Economia del mare, la Penisola a un bivio. Il futuro dei sistemi portuali italiani secondo Pietro Spirito

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L’economia mondiale è da decenni in ebollizione. I baricentri geografici dello sviluppo si muovono assecondando le scosse che ridefiniscono incessantemente gerarchie, sfere di influenza, scenari. Convivere con l’instabilità del sistema è ormai una necessità e un destino: per il futuro occorrerà abituarsi a ragionare secondo una prospettiva di visione strategica sempre più corta, fino a coincidere con un presente che include in se stesso il futuro.
Speculazioni di un teorico? Elucubrazioni di un nemico del capitalismo? Macché. Ad avvertirci che l’economia contemporanea è entrata in una fase caratterizzata “da radicale discontinuità e da un continuo profondo mutamento di fase” e in cui “i cicli durano sempre meno” è l’uomo che ha guidato fino al gennaio di quest’anno l’Autorità di Sistema Portuale del Mar Tirreno Centrale; che ha nel suo curriculum esperienze da manager in Invitalia, Ferrovie dello Stato, Atac, Interporto di Bologna; e che ha lavorato a lungo negli uffici studi della Consob, dell’Istituto Tagliacarne e di Montedison.

In foto Pietro Spirito

Parliamo di Pietro Spirito di cui la Guida editori ha appena pubblicato “Il futuro dei sistemi portuali italiani. Governance, spazi marittimi, lavoro”: un libro in cui, come osserva nell’introduzione Raffaella Paita, presidente della Commissione Trasporti, Poste e Telecomunicazioni della Camera, non c’è soltanto, “l’importante analisi economica” che mette capo al tentativo di disegnare “le prospettive future” del settore; ma anche l’analisi, molto concreta – dal momento che è il frutto di un’esperienza sul campo – del nostro sistema portuale, delle sue attuali contraddizioni, dei suoi perduranti limiti: a cominciare proprio dall’organismo che, secondo la riforma Delrio, avrebbe dovuto coordinare le politiche delle diverse Autorità di sistema portuale, e disegnare – seguendo una logica complessiva – il futuro infrastrutturale dei singoli scali per renderli davvero competitivi con quelli degli altri Paesi. E invece? Permangono differenze gestionali, programmatorie e regolatrici tra un’autorità e l’altra; concessioni i cui iter variano al variare delle realtà territoriali. E piani che decollano a stento. Su tutto una burocrazia asfissiante “che rende quasi impossibile nel nostro Paese realizzare dragaggi e che spesso rallenta opere decisive”. Di qui la proposta di trasformare le Autorità in Spa pubbliche: proposta prematura secondo Paita, la quale tuttavia auspica, sulla base del libro di Spirito, l’avvio “urgente” di un dibattito che crei “le condizioni per rilanciare davvero una delle principali risorse del Paese: il sistema portuale nazionale”.
I segnali che giungono dalle istituzioni non sono tuttavia incoraggianti, tutt’altro. Manca, secondo Spirito, la consapevolezza del momento storico che stiamo attraversando, vale a dire: una fase di transizione dell’economia alla quale lo choc sanitario mondiale ha impresso un’accelerazione formidabile (e i cui effetti si prevedono di lunga durata), ma che, sotto traccia, produce i suoi effetti da decenni. Una transizione che riflette i mobili equilibri strategici mondiali e che, come sempre, ha proprio nei porti il suo passaggio critico, il suo snodo essenziale. Da sempre, ricorda Spirito, nei passaggi epocali dell’economia è al porto che bisogna guardare per capire la direzione del vento. L’evoluzione dei sistemi marittimi ci consente di “misurare la temperatura del commercio internazionale e il grado di interconnessione tra blocchi economici e sociali” e, soprattutto, “di leggere i cambiamenti che si stanno determinando… nelle relazioni tra le grandi potenze internazionali”. “Assumere il mare come angolo visuale – insiste l’autore – ci può consentire di rendere più completa la visione delle trasformazioni in atto. Al suo interno si muovono variabili come: i comportamenti delle istituzioni e le conseguenti regole del gioco, il ruolo degli attori economici, quali armatori e terminalisti, l’evoluzione e il ruolo del lavoro”. Eppure, l’economia del mare è tuttora, lamenta Spirito, un “agglomerato di interessi economici” sottovalutato sia dal punto di vista dimensionale che da quello “dell’intreccio con il sistema produttivo nel suo insieme”. Basti pensare che, soltanto nel 2018, i settori della blue economy della Ue hanno impiegato 5 milioni di addetti e generato 750 miliardi di fatturato, mentre il trasporto marittimo ha rappresentato, in quell’anno, tra il 75% e il 90% del commercio extracomunitario, e un terzo di quello intracomunitario.
Un’occasione irripetibile sta per essere sprecata, lamenta Spirito. “Con la crisi pandemica – ragiona l’autore – l’Europa sta provando ad avviare una nuova stagione basata su un robusto programma di investimenti pubblici”, una stagione che mette fine agli anni del rigorismo (di cui Spirito fornisce una ricostruzione critica dettagliata). Il piano Next Generation Eu destina all’Italia risorse per 209 miliardi: decisione che deriva dalla rilevanza strategica del nostro Paese e tiene conto della sua posizione geo-politica nello scacchiere mediterraneo. E l’Italia che fa? Priva di una visione unitaria, rimastica “idee e progetti…datati”. Nella prima bozza presentata dal governo sull’uso dei fondi si citano addirittura gli investimenti necessari nei porti di Genova e Trieste e si incatenano a una “funzione ancillare” gli scali meridionali per i quali prevale “una visione folcloristica, nella inconsapevolezza che essi movimentano oltre il 40% del traffico commerciale italiano”. Un disastro. Se non si corre ai ripari, avverte Spirito, avremo “un indebolimento della nostra connettività con i mercati internazionali”. Non si è capito che “la svolta che si sta determinando per effetto dell’emergenza sanitaria, e infine economica, delinea un orizzonte e una traiettoria che conducono verso approdi profondamente diversi rispetto alla direzione di marcia seguita dalla Ue negli ultimi decenni”. Anni nei quali “i Paesi più deboli, tra i quali l’Italia, hanno pagato il prezzo più alto per la mancanza di politiche europee di bilancio espansive, necessarie per superare la stagnazione economica”. Del resto proprio l’appiattimento del Paese “nella difesa delle compatibilità di bilancio” (sebbene le politiche restrittive stessero determinando “un peggioramento nella distribuzione del reddito, nell’allargamento delle fasce di povertà e di esclusione sociale”) è all’origine delle “derive populiste che hanno caratterizzato lo scenario politico nazionale”.
La scelta europea di sostenere la ripresa dei Paesi membri nel post-pandemia rappresenta dunque un svolta storica e il Next Generation EU dovrebbe favorire, finalmente, il riequilibrio territoriale del Paese. E invece “l’attuale bozza del documento italiano ricalca approcci tradizionali, senza idee di rilancio strutturale del Mezzogiorno…”. Viene ignorato il ruolo dei porti che “sono un asset formidabile per migliorare la connettività e per ricucire i territori”. E neanche un parola sugli aeroporti “a sottolineare che il tema strategico delle connessioni non sta nella testa di chi elabora il programma per il nostro Paese”. Ma è tutto il tema della efficienza nei servizi per la mobilità che, secondo l’autore, viene trascurato mentre l’attenzione è concentrata “solo negli investimenti infrastrutturali”.
A dimostrazione della nostra miopia, Spirito ricorda che “negli anni recenti il raddoppio del Canale di Suez ha introdotto un elemento di discontinuità molto forte: tra il 2011 e il 2019 il volume delle merci trasportate è cresciuto del 49% mentre quello del sistema portuale italiano è diminuito dello 0,8%”. Quindi “una buona parte del traffico aggiuntivo in entrata da Suez si è diretta verso gli scali collocati lungo le coste orientali del bacino del Mediterraneo: per esempio il traffico complessivo dei porti iberici è cresciuto del 37%. Anche i porti del Nord Africa hanno colto opportunità di sviluppo dei traffici mentre il sistema italiano è rimasto al palo…”.
Eppure l’assegnazione da parte della Commissione europea di risorse finanziarie per 209 miliardi di euro all’Italia è il frutto di una “rinnovata attenzione al Mediterraneo, che negli ultimi decenni aveva assunto un ruolo del tutto marginale…L’iniziativa Belt and Road (BRI) promossa dal governo cinese parte proprio dalla consapevolezza di questa trasformazione strutturale nei flussi del traffico mondiale (e questo è il motivo per cui il bacino del Mediterraneo è centrale in questa rete, essendo visto come l’hub degli hubs, che collega l’Asia con l’Europa, l’Africa e l’America). In termini di strategia logistica, insomma, l’area mediterranea è al centro di un confronto competitivo tra le grandi potenze economiche…”.