Elezioni: in Italia si vota per i comuni, in Gb per restare o abbandonare l’Ue

45

Turno di ballottaggio, domani. Si vota per eleggere i sindaci di Roma e di altri 125 comuni, tra cui molti capoluoghi di regione e provincia: Milano, Napoli, Torino e Bologna comprese. 
Alla competizione gli osservatori assegnano, al solito, un grande valore politico sicché il turno amministrativo rischia, puntualmente, di diventare una sorta di plebiscito pro o contro il governo. Accade, così, che ai fini del voto finisce in secondo piano la qualità (invero già scandente) dei servizi che le amministrazioni delle città – grandi o piccole che siano – erogano a fronte di tasse locali sempre più esose. E finisce in secondo piano anche la montagna di debiti da cui gli stessi municipi, da nord a sud, sono oppressi.
Il tutto, per giunta, a dispetto delle norme che pure ci sono e impongono la copertura di bilancio alle spese che tutte le amministrazioni comunali giornalmente effettuano; oltre che in barba agli organi di controllo della gestione (ma che cosa fanno i revisori dei conti, viene da chiedere?) il cui parere pure è vincolante ai fini della deliberazione delle spesa e della redazione dei documenti di rendicontazione. Anche perché, per convinzione ormai diffusa, infatti, l’idea è che prima o poi finisca tutto in cavalleria: spese allegre, scandali, mazzette, abusi d’ufficio, malcostume, infiltrazioni camorristiche e via di questo passo. E che l’unico prezzo eventualmente da pagare – posto, magari, che con anni e anni di ritardo e la prescrizione alle porte intervenga pure una sentenza della magistratura contabile – sia un momento di gogna mediatica nei tg nazionali e locali, nei quali i dipendenti accusati – poniamo – di strisciare i badge personali e dei colleghi prima di andare non in ufficio (come è avvenuto recentemente in un’Asl del Casertano) ma a fare shopping o un secondo lavoro in nero, non nascondo neanche più gli occhi o i ceppi ai polsi dietro il foglio dell’ordinanza di carcerazione o un indumento di fortuna.
Ad ogni modo, le elezioni davvero importanti sono altre. Il mondo dell’economia e degli affari, infatti, non si lascia incantare più di tanto dal teatrino della politica nostrana, ma guarda semmai con attenzione e una certa apprensione – aggiungo – al referendum di giovedì prossimo, 23 giugno, quando i sudditi di Sua Maestà saranno chiamati a stabilire se il Regno Unito dovrà restare a far parte dell’Unione Europea o se, invece, se ne distaccherà definitivamente. Nei sondaggi il fronte del “leave” sembra prendere consistenza (secondo l’Economist è al 44% contro il 42% favorevole alla permanenza) e la sterlina – attestatasi negli ultimi giorni in area 1,41 contro il dollaro – rischia di indebolirsi anche di più, ovviamente trascinandosi dietro anche l’euro. A meno di un’inversione di tendenza, che gli osservatori comunque registrano a seguito dell’aggressione mortale a Jo Cox, la deputata labour schierata decisamente a favore della permanenza del Regno Unito nell’Unione europea. Omicidio eccellente che intanto ha portato alla sospensione delle campagne “Remain” e “Leave”.
E in questo quadro, peraltro, ben si comprendono le posizioni di attesa – al di là dei problemi di crescita che comunque continuano ad esserci per i rispettivi Paesi – della Federal Reserve e della Bank of Japan, che hanno infatti lasciato immutate le rispettive politiche monetarie.
Intanto, però, sui media si moltiplicano interrogativi e riflessioni. “Se Londra uscirà dall’Europa il mondo non sarà più lo stesso”, ha detto per esempio il Nobel per l’economia 2015, Angus Deaton, che in questi giorni si trova in Italia sul lago di Iseo per una Summer School con una settantina di giovani laureandi provenienti da tutto il mondo. “A pagare il conto saranno i più poveri. E l’aumento dei disoccupati farà esplodere le diseguaglianze”, ha aggiunto l’economista scozzese. Il paradosso è proprio questo: “Chi vuole l’uscita dalla Ue lo fa perché non ha visto un miglioramento nella propria condizione economica e avverte un disagio per la diseguaglianza. Pagheranno con il portafoglio il loro voto”. Non solo. “All’uscita britannica potrebbe seguire una separazione dall’Unione anche dei Paesi del Nord, quelli scandinavi in particolare. A questo si aggiunge la possibile elezione di Trump in America che porterebbe a un mix pericoloso. Il rischio peggiore per l’Europa è di fare un rovinoso salto indietro fino agli anni ’30 del Novecento, quelli che hanno preceduto l’avvento di Hitler e la Seconda Guerra Mondiale”.  
Resta il fatto che, in un’Europa costruita dai governi e non dai popoli, assai sensibile alle ragioni della finanza piuttosto che della politica, il referendum britannico è esercizio di democrazia partecipativa, al di là del rischio Brexit.
Per tornare alle vicende di casa nostra, i temi della settimana sono stati ancora: debito pubblico, tasse e pensioni. Bankitalia infatti registra un nuovo record del debito pubblico (2.230 miliardi ad aprile). Il 16 giugno scorso il Pd ha festeggiato il “No Imu day”. Resta il fatto, però, calcola la Cgia di Mestre, che tra ritenute Irpef, Tasi, Imu, Ires, Iva, Irpef, Irap, addizionali comunali/regionali Irpef, e compagnia cantando le imprese e le famiglie italiane hanno versato ben 51,6 miliardi di euro di tasse. Di queste: 34,8 miliardi sono finite nelle casse dell’erario, 11 in quelle dei Comuni e 5,3 in quelle delle Regioni. Dal pagamento del diritto annuale alle Camere di Commercio, infine, gli enti camerali incassano dalle imprese 500 milioni di euro. In quest’ultimo caso c’è da chiedersi a pro di che. Infine, il capitolo pensioni, per anticipare le quali gli interessati – in genere poveri cristi – dovranno fare un mutuo.
Alla faccia, naturalmente, di chi la pensione continua ad averla d’oro e forse anche più di una.