Elogio del silenzio, riflessioni d’agosto

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Come narra Platone, in una delle più grandi opere che l’umanità possiede, verso il mezzogiorno di una luminosissima e calda giornata d’estate, tra il 420 ed il 410 a.C., Socrate e Fedro escono dalle mura di Atene e si avviano verso un luogo solitario e tranquillo, dove sedersi, leggere, conversare. In città si continuano a curare i giardini di Adone, ovvero a piantare, in bacinelle, canestri, conchiglie, semi di alberi i quali, innaffiati con acqua calda, nascono e crescono in otto giorni, ma che poi rapidamente muoiono senza dar frutto. Il luogo è pieno di verde e di ombre. Socrate e Fedro, a piedi scalzi, camminano lungo le sponde dell’Ilisso, il piccolo fiume che scende dall’Imetto e dove scorre acqua freschissima. Ad un certo punto l’attraversano dove l’acqua è particolarmente bassa e si avviano verso un altissimo, largo e frondoso platano, sotto i quale c’è una fonte fresca e limpida, che versa le sue acque in un ruscello che discende verso l’Ilisso. Poco distante dal platano, si eleva un agnocasto dalla bellissima ombra il quale, essendo nel pieno della fioritura, rende l’aria profumatissima. D’intorno ci sono la statua di Pan e quelle di altre divinità. Poco lontano, lungo la strada che oltre l’Ilisso porta al tempio del demo di Agra, si eleva l’altare di Bòrea, sul quale forse, di tanto in tanto, fumano incensi. Soave e gradevole è il venticello. L’erba è disposta in un dolce declivio, che invita a distendersi in modo da appoggiare perfettamente la testa. Qui Socrate e Fedro si fermano, si siedono ed iniziano a conversare, tra il dolce mormorio estivo, al quale risponde il coro delle cicale. Non parlano di quel che sta avvenendo in città, né parlano di coloro che, con il loro dire, fanno apparire grandi le cose piccole, e piccole le cose grandi. Parlano invece dell’amore, che deriva dalla bellezza e dell’anima, che è immortale, la quale, se ben guidata, tende verso l’alto, raggiungendo il divino, ovvero ciò che è bello, sapiente e buono, ma se mal guidata si adatta e resta nel basso, nutrendosi del cibo dell’opinione. Nell’epoca in cui siamo, d’estate, non solo in tante altre parti d’Italia, ma anche nell’isola di Capri, è difficile trovar luoghi di bellezze naturali, dove non giunga il frastuono dei rumori e dei suoni. E dove, nel silenzio, si possa conversare con altri o con se stessi, senza che l’immagine diventi realtà e la realtà immagine. Tuttavia, nell’isola, luoghi di tal genere ancor ci sono. Ed è necessario giovarsi d’essi, non tanto per godere quel che coloro che verranno non potrebbero avere più possibilità di godere, ma per ritrovare e ripensare quel che rende la vita di ogni uomo degna di essere vissuta, e che potrebbe salvare i singoli e l’umanità dalla barbarie e dal caos. Simili luoghi si possono trovare durante il giorno, quando per gran parte dell’isola si va e si viene a più non posso. Si possono trovare soprattutto a tarda sera e durante la notte quando, sulle spiagge ridiventate deserte e sulle coste, si risente il mormorio del mare, e nel cielo si rivedono, limpide e scintillanti, le stelle che videro anche Socrate e Fedro, che videro i nostri avi, che hanno visto coloro che negli anni e nei mesi passati erano con noi e che ora non ci sono più. E misteriosamente, in un mondo che, abbandonando il divino, ha perduto l’elevatezza del pensiero, ci si ritrova in quella luce che è messaggera di cose alte e divine, alle quali invita coloro che sanno riceverla e comprenderla.