Esteri o non Esteri, questo è il problema

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In foto Luigi Di Maio, ministro degli Esteri

Ha fatto discutere questa settimana la proposta di incorporare la funzione del commercio internazionale nel ministero degli Esteri. Una scelta presentata come necessaria per avvicinare l’Italia agli altri Paesi che si muovono nel mondo in una logica di sistema: quindi con maggiore efficacia e non in ordine sparso come spesso avviene con competenze affini affidate a corpi differenti.
Come ogni novità anche questa ha incontrato le sue brave barriere a ostacolarne i primi passi. Le principali perplessità nascono dalla considerazione che si tratta di un passaggio molto delicato, che coinvolge uffici e persone, sconvolge abitudini, può creare rallentamenti in un cantiere come quello dell’export italiano dal quale deriva gran parte della ricchezza nazionale.
Insomma, visti i rischi potenziali è meglio non muovere niente. Per Confindustria, invece, la decisione può rivelarsi strategica purché sia funzionale a potenziare il lavoro della diplomazia, attraverso la rete delle ambasciate, al fianco delle imprese grandi e piccole che sempre con maggiore dinamismo – anche per l’asfissia del mercato interno – si espandono all’estero.
La notizia della piccola grande rivoluzione amministrativa non ha suscitato reazioni visibili presso i diretti interessati. Dalla Farnesina, dove si è da poco insediato il ministro Luigi Di Maio, non si sono sollevate le proteste che solitamente accolgono i propositi di cambiamento. E anche dal Mise, che con la riforma dovrebbe perdere di peso, non si sono alzate le consuete barricate.
Il che farebbe supporre, suggeriscono i bene informati, che l’idea di fondere le due competenze non è nuova come appare. Anche perché sarebbe stato davvero diabolico venir fuori con un’iniziativa del genere dopo appena qualche giorno dal varo del nuovo governo, mentre ancora si discute di viceministri e sottosegretari. L’ipotesi più credibile è che il progetto covasse sotto la cenere.
Di Maio è stato pronto a cogliere la palla al balzo e a lanciarla nell’arena del dibattito pubblico già sapendo che molte resistenze interne erano da tempo cadute e che, anzi, ai piani alti del suo ministero l’impianto dell’accorpamento andava perfino a genio. Non è un mistero che per la corporazione delle feluche il tabù a occuparsi di economia e affari va pian piano scomparendo.
Dunque, la spinta viene da lontano ed è probabile che dirigenti e funzionari della Farnesina, il fior fiore della burocrazia ministeriale, si siano già fatti un’idea di come procedere per raggiungere l’obiettivo senza sacrificare tempo prezioso e recuperando le buone pratiche che nel frattempo, nonostante la scarsa fiducia che mostriamo di avere nei nostri confronti, si sono consolidate.
Naturalmente, a pensar male non si sbaglia e occorre mettere tutta l’attenzione possibile perché il cambiamento sia davvero in meglio. Occorre ricordare che dei 560 miliardi di export nazionale l’80 per cento è dovuto all’industria e che per questo l’Italia è la seconda manifattura d’Europa. Una posizione che non possiamo perdere per insipienze o distrazioni della politica.