di Erika Basile
Aldo Moro è vivo! Con la barba incolta, sofferente, disteso sul letto di un ospedale blindato dalla polizia, ma è vivo: è stato liberato. Attorno a lui ci sono Andreotti, Cossiga e Zaccagnini, che non hanno fatto trapelare ancora la notizia: “Nessuno deve sapere che è qui, neppure il Papa. […] Meglio consultare prima gli amici americani”. Ha le lacrime agli occhi il Presidente, mentre sentiamo riecheggiare le sue parole tratte da un lungo brano scritto durante la prigionia, prima che le sue speranze si infrangessero: “Questa essendo la situazione, io desidero dare atto che alla generosità delle Brigate rosse devo, per grazia, la salvezza della vita e la restituzione della libertà. Di ciò sono profondamente grato. Per quanto riguarda il resto, dopo quello che è accaduto non mi resta che constatare la mia completa incompatibilità con il Partito della Dc. Rinuncio a tutte le cariche, esclusa qualsiasi candidatura futura, mi dimetto dalla Dc”.
Con questa scena onirica si apre Esterno notte di Marco Bellocchio. Presentato fuori concorso nella sezione Première del Festival di Cannes 2022, è stato accolto con un’ovazione e dieci minuti di applausi. Un progetto ambizioso che nasce come una serie: 300 minuti divisi in 6 puntate che andranno in onda tra qualche mese su Rai1. Mentre al cinema viene proposto come un film diviso in due parti: la prima, nelle sale dal 18 maggio, la seconda, dal 9 giugno. Vent’anni dopo Buongiorno, notte Bellocchio ritorna sul caso Moro, affrontandolo da un’angolazione inedita. Con uno spirito diverso rispetto al passato, egli ha deciso di narrare quei 55 giorni dal punto di vista privato, soggettivo, di alcuni personaggi coinvolti nella vicenda. Si inizia e si conclude con Aldo Moro (Fabrizio Gifuni), ma il focus, nei capitoli centrali, si concentra su Francesco Cossiga (Fausto Russo Alesi), Paolo VI (Toni Servillo), Adriana Faranda (Daniela Marra) ed Eleonora Moro (Margherita Buy, in una delle sue interpretazioni più intense). L’ultimo episodio è quello più corale e racconta, dall’esterno, gli ultimi due giorni della vita dello statista, il 7 e l’8 maggio.
Partendo da una testimonianza di vita reale, il regista dimostra, anche in questa occasione, una notevole abilità a trascenderla e a fornire piani alternativi alla cronaca: “È come se la realtà diretta mi affascinasse ma non fosse sufficiente – dichiara – per cui varie volte, e in modo più accentuato negli ultimi anni, c’è questo tentativo di mescolare materiale cosiddetto di repertorio con le immagini che giro io”. Egli scruta i pensieri e le emozioni dei suoi personaggi, ne mostra il tormento, le fragilità, la solitudine, le contraddizioni e le ossessioni. Propone prospettive diverse e le intreccia. Il plot di Esterno notte è costituito dalla possibilità e dalla volontà di liberare il prigioniero, con tutte le implicazioni politiche che ciò comporta. Ma anche dal tradimento, che serpeggia, che non viene mai svelato apertamente ed è mascherato dalla ragion di stato. Un altro filo conduttore è costituito dalla follia, declinata in molti modi. Essa si manifesta nelle logiche di potere, nelle espressioni esasperate del misticismo religioso e dell’ideologia rivoluzionaria. La grande idea che attraversa il film è che Aldo Moro sia “pazzo” e che le sue lettere non abbiano alcun valore, perché scritte sotto la costrizione psicologica dei suoi carcerieri, attraverso anche il ricorso a psicofarmaci. Un alibi che risulta utile a coloro che lavorano nell’ombra per scongiurare il suo ritorno. Ma “che cosa c’è di folle nel non voler morire?”, domanda attonito il Presidente democristiano al suo confessore, don Antonio Mennini.
L’approccio ai fatti da parte di Bellocchio risulta meno partigiano e meno ideologico rispetto a quello che abbiamo osservato in Buongiorno, notte: “Ero legato all’utopia maoista, – confessa – all’idea quasi religiosa di cambiare il mondo e la società, a quella necessità di servire il popolo, rifiutando l’identità borghese. Questa utopia è fallita ma traspare ancora nel mio lavoro. Adesso il modo di rappresentare la politica è totalmente disincantato”. Aldo Moro appare in tutta la sua umanità, quando abbraccia teneramente suo nipote ma anche quando, rivolgendosi a Cossiga, amico e compagno di partito che vive in un matrimonio senza amore e si sente un fantasma dentro casa sua, dice: “La politica ha un prezzo, caro Francesco, coraggio. Poi, sai, noi non dobbiamo mai dimenticare che la nostra è una specie di missione. E la fede in questa missione deve anche aiutarci a sopportare certe pene domestiche”. E di quella missione avverte tutto il peso e la responsabilità. Con determinazione cerca di attuare un articolato programma di riforme, che prevede la fine dell’isolamento del Partito Comunista Italiano e il cosiddetto “compromesso storico”. La sua visione, inoltre, contemplando un diverso posizionamento nella politica estera, deve affrontare le resistenze sia degli Stati Uniti sia dell’Unione Sovietica. Diversi sono i fronti di opposizione, interni ed esterni, troppi.
Il giorno dell’insediamento del nuovo governo, Aldo Moro viene rapito dalle Brigate rosse e le sue guardie del corpo sono uccise. È il 16 marzo 1978. Costretto in uno stanzino di un metro per quattro, isolato, subisce un processo da parte dei suoi sequestratori “in nome del popolo”. Gli viene data la possibilità di leggere, sporadicamente, stralci di giornale, ma riceve anche carta e penna. Ed egli scrive, scrive continuamente. Fissa sui fogli le sue paure e i suoi pensieri, per la famiglia, per gli amici, per il Papa. Il 20 aprile in una lettera a Zaccagnini si legge: “Mi rivolgo individualmente a ciascuno degli amici che sono al vertice del Partito e con i quali si è lavorato insieme per anni nell’interesse della DC.[…] Il Governo è in piedi e questa è la riconoscenza che mi viene tributata, per questa come per tante altre imprese. In allontanamento dai familiari senza addio, la fine solitaria, senza la consolazione di una carezza, del prigioniero politico condannato a morte. Se voi non intervenite sarà scritta una pagina agghiacciante nella storia d’Italia. Il mio sangue ricadrebbe su di voi, sul partito, sul Paese”. Poche settimane dopo, il 9 maggio, viene ritrovato il suo cadavere nel bagagliaio di una Renault 4 rossa in via Caetani, davanti all’ingresso del Centro Studi Americani. Questa data costituisce uno spartiacque per la vita politica italiana e un punto di non ritorno.
Leonardo Sciascia, in Todo Modo (1974), “prevede” l’autodistruzione della DC e, in un certo senso, la morte dello statista democristiano: “rivedo nella realtà come una specie di proiezione delle cose immaginate. Questo mi ha fatto da remora nell’intervenire, come scrittore, anche per un senso di preoccupazione e di smarrimento nel vedere le cose immaginate verificarsi”. Per questo motivo egli è stato accusato di esserne stato involontariamente l’istigatore, insieme a Elio Petri che le ha messe in scena nel 1976. A ridosso di quei tragici eventi, Sciascia scrive L’affaire Moro. In esso, da un lato condanna la violenza dogmatica dei terroristi: “Ma se lo scopo delle Brigate rosse – dichiarato e ribadito – è quello di interrompere il processo di attrazione, il movimento di congiunzione tra Partito Comunista e Democrazia Cristiana, come mai non si accorgono […] che quel processo riceve dalle loro azioni parvenza di necessità e accelerazione? […] Si può dunque dedurre, da questo procedere che appare scriteriato, che l’essenza e il destino delle Brigate rosse stiano davvero nella sfera – a dirla banalmente – del ‘pazzesco’ o – meno banalmente, più sottilmente – nella sfera di un estetismo in cui il morire per la rivoluzione è diventato un morire con la rivoluzione?”. Dall’altro, sostiene che i vertici della DC abbiano recitato un copione per tutta la durata della prigionia del loro presidente. Ritiene, infatti, che le loro intenzioni sono apparse chiare, sin dal principio: “È il 25 aprile e nella sede centrale della DC, nella romana piazza del Gesù, viene distribuito ai giornalisti un documento che ho già definito, per come mi parve e mi pare, mostruoso. Una cinquantina di persone, ‘amici di vecchia data’ dell’onorevole Moro solennemente assicurano che l’uomo che scrive le lettere a Zaccagnini, che chiede di essere liberato dal carcere del popolo e argomenta sui mezzi per farlo, non è lo stesso uomo di cui sono stati lungamente amici, al quale per comunanza di formazione culturale, di spiritualità cristiana e di visione politica sono stati vicini”. L’intellettuale siciliano, che entra a far parte della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani (1979), denuncia l’intransigente e ingiustificata politica della fermezza di uno Stato debole e corrotto, che, privo di quell’integrità morale di cui vuole ammantarsi, si è barricato nei palazzi del potere.
In quegli stessi edifici ma anche nell’intimità delle abitazioni private, Marco Bellocchio ambienta la sua serie cinematografica. Egli fa rivivere la prigionia di Moro attraverso lo sguardo di chi era fuori dal “covo”, mettendone in rilievo le debolezze e i chiaroscuri. Esterno notte, come sottolinea lo stesso regista, costituisce “il controcampo” di Buongiorno, notte. Il lungometraggio del 2003, infatti, è il racconto claustrofobico di quei giorni, osservati esclusivamente dall’interno della “gabbia”. Esso si intreccia con la storia di Chiara (Maya Sansa), unica donna tra i brigatisti presenti nell’appartamento. Assistiamo al graduale sgretolamento delle sue certezze, vediamo vacillare i suoi ideali, alternarsi e confondersi realtà e immaginazione. Nel finale, Chiara sogna Aldo Moro (Roberto Herlitzka) mentre indossa il cappotto, apre la porta e cammina per le strade di una Roma grigia e deserta, finalmente libero. Un’immagine che ricorda la scena di apertura di Esterno notte e costituisce un ulteriore legame ideale tra i due lungometraggi. Un lampo di umanità che squarcia le tenebre.
Quale sarebbe stato il destino della politica italiana, viene da chiedersi, se le cose fossero andate diversamente? Le lettere conclusive del “memoriale” di Aldo Moro mostrano come, negli ultimi giorni, gli sia apparso chiaro il suo destino: egli si rivolge affettuosamente alla famiglia e fornisce disposizioni per il suo funerale, chiesto in forma privata. Cade nel vuoto, infatti, anche l’appello di Paolo VI, che nel movie serial è interpretato magistralmente da Toni Servillo. È un papa sofferente e combattuto quello che vediamo: indossa il cilicio e immagina il suo amico Aldo portare la pesante croce di Cristo, il venerdì santo, davanti allo sguardo indifferente di tutto il suo partito. Egli si rivolge direttamente alle Br, chiedendo un gesto di misericordia, e attiva un canale parallelo di trattativa raccogliendo circa 20 miliardi di lire (“lo sterco del diavolo”) da consegnare ai rapitori in cambio del rilascio dell’ostaggio. Ma non succede nulla, la negoziazione fallisce, forse anche per ingerenze esterne. La dilatazione del racconto consente a Bellocchio di presentare e approfondire contesti e attori in gioco. Fausto Russo Alesi è un inquieto Francesco Cossiga. Preda di allucinazioni, egli personifica l’impotenza della politica. La paura che lo assale, quando vede comparire delle macchie sulle mani, richiama alla memoria Shakespeare che al suo Macbeth, divorato dai sensi di colpa, fa dire: “Potrà tutto il grande oceano di Nettuno lavare questo sangue via dalle mie mani?”.
Uno dei momenti più foschi della storia italiana diviene un thriller cupo e coinvolgente, dal ritmo sostenuto, impreziosito dalla fotografia di Francesco Di Giacomo e dalla colonna sonora firmata dal compositore Fabio Massimo Capogrosso: “Ho provato, attraverso soprattutto l’uso di un’orchestrazione densa e ricca di colori, a esplorare in profondità le articolate dinamiche di una vicenda così drammatica, ma che al contempo presenta anche aspetti tristemente incomprensibili e grotteschi”. Molte domande continuano a pesare come macigni e sembrano risuonare nella nebbia della coscienza collettiva. Mi sovviene la citazione di Elias Canetti con cui Leonardo Sciascia introduce L’affaire Moro, “la frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto al momento giusto”.