Fabio Donato: Julian Beck e il Living a Napoli, lo scatto che cambiò la mia vita facendo di me un vero fotografo

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in foto il Living Theatre al Teatro Mediterraneo. Paradise now, Fabio Donato (1969)

L’occhio di Leone , ideato dall’artista Giuseppe Leone, è un osservatorio sull’arte visiva che, attraverso gli scritti di critici ed operatori culturali, vuole offrire una lettura di quel che accade nel mondo dell’arte avanzando proposte e svolgendo indagini e analisi di rilievo nazionale e internazionale.

La fotografia come linguaggio di espressione diretto, specchio della realtà, del pensiero, del vivere quotidiano, uno sguardo che devi saper usare per non trasformare il reale in artefatto. Questo è ciò che da sempre riesce a cogliere l’occhio attento di Fabio Donato, fotografo napoletano, che dagli anni sessanta ha saputo carpire i cambiamenti in ambito artistico e teatrale sempre con occhio critico e onesto. Nelle fotografie di Donato c’è un equilibrio tra le parti, perché lui segue due percorsi: quello che fotografa gli artisti e quello che fa le sue “poesie”. Ogni sua foto è un sipario che si apre a noi osservatori, che soggettivamente esprimeremo il nostro pensiero o le nostre perplessità. Le sue fotografie, infatti, producono pensieri, che pongono dei dubbi nell’osservatore attento e lo disorientano. In questa intervista cercheremo di conoscere meglio il linguaggio puro della fotografia e il pensiero di Fabio Donato.

di Ilaria Sabatino

Cosa significa, oggi, fare fotografia?

Quello che significava ieri, per me la fotografia è un linguaggio ed io la uso per esprimere una serie di cose. Se faccio il professore esprimo diciamo la didattica, se faccio l’artista uso il mio linguaggio per comunicare poesia, se sto lavorando sul lavoro di altri artisti, il mio problema è comunicare il pensiero degli altri filtrato dalla mia interpretazione. Questo è per me, per qualcuno fotografia significa portare a casa il pane e basta, che non si preoccupa di interpretare, racconta quello che succede. Qualcun altro si pone come riproduttore preciso di una realtà o completamente si illude di riprodurre una realtà. Questo, però, non riguarda l’oggi, è sempre stato così, cioè è cambiata la vita intorno a me, ma non è cambiato il mio rapporto con la fotografia, il modo in cui io uso la fotografia è sempre lo stesso.

Quanto ha inciso il passaggio dall’analogico al digitale nella fotografia? Cos’è cambiato nel suo modo di fare fotografia?

Rimanendo al mio modo, non è cambiato nulla perché io uso il digitale come se fosse analogico. Uso gli stessi parametri e gli stessi criteri che usavo prima, certo, utilizzo il computer invece della camera oscura, ma l’uso come se stessi in camera oscura, tutti i mezzi che ho a disposizione li uso all’uno per mille. Non mi interessano, per me la fotografia è quella di ieri, anzi io ho un’idea di una fotografia che è nata nel 1834 con una dichiarazione in un convegno di scienziati e muore intorno all’anno 2000. Poi è nato un nuovo modo di comunicazione visiva, che per il momento si chiama fotografia digitale, ma non lo so se tra cinquant’anni o trenta la chiameremo ancora così. Quando la fotografia è nata, essa continuava una relazione tra certe persone che volevano registrare la vita, che copiavano la realtà ed è nato questo strumento che lo faceva meglio dei pittori, con più perfezione, con più precisione, con più dettagli. Gli artisti, i pittori si misero a fare i fotografi, più o meno, cioè tutto il mondo conservava la realtà, c’erano i pittori che facevano i ritratti ai nobili etc. hanno smesso di dipingere e si sono messi a fare fotografie perché era più veloce, era più contemporaneo. Sono passati centocinquanta, centosettanta anni, nasce questa nuova cosa, che ha fatto diventare tutti creativi, tutti artisti, nessuno più si preoccupa di registrare la realtà, si fa dell’altro. Adesso io penso, non tanto, a chi si fotografa il piatto di spaghetti e lo mette su internet, perché questi sono umani semplici, perché non hanno altre idee, in questo senso sono semplici, diciamo che gli piace comunicare il quotidiano. Invece, però, ci sono quelli che usano la fotografia digitale, come se fosse grafica, per realizzare prodotto di pensiero, perché possono inventare tutto, possono inventare qualsiasi cosa con la tecnologia digitale, perché non hanno bisogno, come i fotografi, della realtà per produrre un’immagine. Ecco perché io dico, che non avendo bisogno della realtà per produrre immagini, queste che loro producono non sono fotografie, sono immagini di “fantasia” e quindi non è fotografia. Poi un giorno gli daremo un altro nome, perché vent’anni sono pochi, il passaggio è lento!
Qualche giorno fa un amico del mondo della fotografia, Umberto Sbrescia, si è suicidato! Era quello che ha fornito pellicole e tutti i materiali di supporto per cinquant’anni a tutti i fotografi della Campania e di mezza Italia. I giornali sottolineano molto che lui si era addebitato e che con il covid i fotografi non facevano più i matrimoni e quindi lui non vendeva. Secondo me tutto questo è vero solo in parte, perché una persona come Umberto, che a qualsiasi ora lo chiamavi era sempre disponibile a salire in vespa e raggiungerti con quello che ti era necessario per lavorare, quindi pensa che persona era. Poi era un amico, tieni conto che nella fotografia analogica il rapporto con Sbrescia, era un rapporto di un giorno sì e un giorno no, in cui c’era il caffè, la chiacchiera, il pranzare insieme qualche volta etc. questo fallo per trent’anni… dove lo trovi un amico così, cioè con quale amico passi tutto questo tempo. Dico tutto ciò, per dire che, secondo me non sono i debiti che hanno ucciso Umberto, ma è la fotografia digitale, non è il covid. Sono vent’anni, più o meno, che quasi non lo vedevo più, lo andavo a trovare per prenderci un caffè, ma non avevo niente da comprare. La relazione con chi forniva i supporti al mio lavoro non c’è stata più, questo per me, per altri, in maniera un po’ diversa, magari, a seconda delle specializzazioni dei fotografi. Quindi il vero problema per uno come lui e che si è ritrovato senza ruolo, probabilmente, e non si è adattato. Certo poi ci sono i debiti, però, in questo momento a Napoli di commercianti con i debiti ce ne saranno tantissimi e mica si suicidano tutti, quindi mi sembra semplicistico dire si è suicidato perché aveva i debiti, anche se lui l’ha scritto. Il passaggio è che le fotografie che si fanno oggi o sono quelle che si fanno col telefono, senza pensiero, di istinto, di getto, di gioco, quindi con una velocità troppo spinta oppure sono estremamente elaborate come un dipinto e quindi non sono fotografie. Quando io comunico il mio pensiero lo faccio attraverso la realtà, uso come strumento dei pezzi di realtà che esistono, qui la gente si inventa il tramonto verde e quando il tramonto è diventato verde è la fine del mondo. Gli fai vedere le foto a un bambino di un tramonto verde e quello si crede che è vero, pensa che confusione che creiamo in questa realtà vero finta, dove finzione e realtà si accavallano. Tutto questo deve ancora essere metabolizzato, questo passaggio dall’analogico al digitale, secondo me, non è stato ancora metabolizzato!

Ha lavorato con il teatro, registi e artisti famosi, e visitato molti luoghi. Qual è lo scatto che ha predisposto e tracciato un ricordo importante nella sua carriera di fotografo?
Le foto del Living 1969, conoscevo Julian Beck solo per i molteplici discorsi con Mario e Maria Luisa Santella, con i quali, da un paio di anni, avevo iniziato un rapporto di collaborazione. Il Living era per me un gruppo di riferimento solo linguistico, in anni molto marcati ideologicamente, non poteva interessarmi il loro essere anarchici, invece la rivoluzione che avevano realizzato sul linguaggio del teatro mi sembrava in sintonia con la rivoluzione dei linguaggi che si tentava di realizzare in ogni ambito. All’epoca non ero un fotografo, ma uno studente di Architettura con l’hobby della fotografia. Quella serata per me fu importante. Lo scenario: il teatro Mediterraneo. Palcoscenico senza scena. Gli attori andavano dal palcoscenico alla platea, recitando in mezzo al pubblico. Realizzavano proprio la cancellazione del diaframma scena/platea e quindi riproponevano il teatro come rituale collettivo. Julian Beck era il gran capo carismatico, il grande sacerdote di questo rituale, il mio coinvolgimento avvenne quando compresi che il loro lavoro attraverso il teatro era il tentativo di trasformare linguaggi, comportamenti di tutto il sociale. Quello che io tentavo di fare all’università, attraverso la politica e decisi di non fotografare lo spettacolo, con la sua narrazione puntuale, ma mi posi il problema di registrare questo nuovo rapporto tra gli attori e il pubblico. Aver fotografato non lo spettacolo, ma le intenzioni teoriche della regia ed aver capito che era importante fare ciò, in seguito ha certamente influito sulla scelta di legare la mia vita alla fotografia.
Julian Beck è quello che teorizzava l’abolizione di questa duplicità spaziale tra pubblico e attori. Io entro nel teatro Mediterraneo, scendo le scale, lo spettacolo non era ancora cominciato, invece di andarmi a sedere tra le mille persone presenti, mi avvio sul palcoscenico, salgo sul palcoscenico e mi metto di fronte al pubblico. Poi arrivano gli attori che si mettono davanti a me, in mezzo tra me e il pubblico, io sto sul palcoscenico e questi attori si sdraiano per terra tutti quanti. Io ho questa foto dell’inizio dello spettacolo, in cui c’è questo sguardo che incontra prima gli attori e poi il pubblico di fronte insieme. E’ una foto che racconta solo questo. Ma questo scatto è la sintesi di tutta la teorizzazione di Julian Beck!

Con l’occhio da fotografo, come vede questo periodo che stiamo vivendo?
Io vedo questo periodo che stiamo vivendo, come un periodo di riflessione. Siamo chiusi in casa e quindi chi ha un cervello lo può usare. Con l’occhio del fotografo, nell’ultimo anno ho fatto una serie di fotografie in casa. Ai miei studenti, che dicono che non possono uscire, io dico comincia la giornata fotografando le pantofole, comincia a raccontare che succede dalle pantofole, perché la prima cosa che vedi quando apri gli occhi sono le pantofole. Un anno e mezzo fa, all’incirca, avevo proposto ad un editore un desiderio, dopo cinquant’anni di attività, di realizzare un libro su Napoli, che credo sia la cosa più difficile al mondo da realizzare per le caratteristiche che Napoli ha. Poi è arrivato il covid e teoricamente io nell’anno che ormai è passato avrei voluto cominciare a lavorare su questa cosa, ma Napoli non c’era più! Giravo per la strada e non c’era nessuno, non c’erano segni caratterizzanti, non c’era la gente, non c’era il sorriso, non c’era il canto, non c’era il rumore, non c’era la violenza, non c’era la bellezza, non c’era il sole, non c’era niente, c’era qualcuno con la mascherina. Certamente chi vuole raccontare il quotidiano, l’oggi, trova il vuoto e la mascherina, ma sai io non ho mai fatto questo, ho sempre fatto un lavoro più complesso di interpretazione e quindi non mi basta. Però quando dico riflessione, dico che è un momento in cui ognuno di noi, diciamo, ha la possibilità, il tempo di chiudersi in sé e di fare delle analisi, di realizzare dei pensieri…e non mi sembra poco!

in foto Fabio Donato, autoritratto, 2017
in foto Eduardo De Filippo, 1976 by Fabio Donato
in foto Enigma n.2, by Fabio Donato, 2016
in foto 2016. Enigma n.2 by Fabio Donato