Federal Reserve: una botta e via

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Poche ore ormai ci separano dall’annuncio del primo rialzo dei tassi d’intervento da parte della Federal Reserve americana. I mercati stimano la probabilità dell’evento superiore al 75%. Si tratterà di un ritocchino dello 0,25% che sposterà il tetto dell’attuale “corridoio” dei Fed Funds dallo 0- 0,25% allo 0,25-0,50%. L’ipotesi contraria, pur possibile, è molto improbabile, malgrado le recenti giravolte finanziarie abbiano, una volta di più, sollevato inevitabili dubbi. E questo perché ne uscirebbe ulteriormente compromessa la credibilità dell’istituzione e di chi la guida, Janet Yellen, che di recente ha anticipato l’imminente rialzo dei tassi, a meno di sorprese negative sul fronte economico, che non sono e non potevano arrivare in un periodo così breve di tempo; pochi giorni che però sono bastati ai mercati per alzare di nuovo la pressione. L’aspetto della credibilità a rischio non è di poco conto perché nel corso dell’ultimo anno la Fed troppo spesso ha dato l’impressione di giungere divisa e indecisa alla meta, troppo condizionata dalle mattane dei mercati. Una improbabile ma non impossibile proroga dello status quo sarebbe, a questo punto, presa molto male dai signori dei listini. D’altra parte anche il rialzo seguito da dietrofront tra qualche mese, sperimentato di recente da diverse banche centrali, rappresenterebbe un colpo terribile per la credibilità dell’istituzione1 . Da evitare quindi a tutti i costi. Si tratta di una decisione storica. In primo luogo perché pone simbolicamente un punto fermo, certifica la sepoltura delle politiche “non convenzionali”, della gestione straordinaria. Azioni adottate dapprima alla disperata, per contenere la grande crisi finanziaria e in seguito mantenute a lungo, per mitigarne le conseguenze deflattive. L’ultimo rialzo dei tassi deciso dalla Federal Reserve – all’epoca regnava ancora incontrastato un inconsapevole Alan Greenspan – risale al 2006, in piena bolla immobiliare (si veda il grafico in basso).Seguì la drammatica stagione autunno-inverno a cavallo del 2009, con il fallimento di Lehman, gli interventi pubblici di salvataggio del sistema bancario, la ZIRP (zero interest rates policy), l’acquisto di titoli sul mercato, in tre ondate successive, terminato nell’ottobre del 2014 (il Quantitative Easing). Infine la lunga, tormentata attesa della prima mossa di discontinuità, quindici mesi di blabla, un periodo infinito per i mercati, che ha stremato un po’ tutti. Decisione controversa. Si tratta comunque di una decisione, ancora oggi, estremamente controversa, per molti inutile, per altri dannosa. Il vociferante schieramento degli economisti liberal neo-keynesiani, da Paul Krugman a Larry Summers, considera che i rischi potenziali possano superare i presunti vantaggi2 . Questione di punti di vista, ovviamente, mancando in economia la controprova fattuale. Certo, difficile negare molte delle loro tesi. Se è vero che per l’economia Usa il bicchiere può essere ottimisticamente considerato mezzo pieno, la congiuntura internazionale, nella quale oggi la Cina ha un peso determinante, mantiene intatto un potenziale deflazionistico non indifferente. Le dinamiche dell’economia Usa. Sul fronte domestico, il mercato del lavoro è vicino alla piena occupazione e negli ultimi anni la crescita economica è stata decente, ma nulla di più. Anzi, lestime a breve della Fed di Atlanta (si veda il grafico in alto), indicano una crescita del PIL nel quarto trimestre nell’intorno di un modesto 1,5%. Nel frattempo il dollaro forte rallenta la produzione industriale, indebolisce margini e utili aziendali. Il crollo del prezzo del petrolio, inoltre, ha messo in ginocchio il settore energetico e quello finanziario ad esso legato, con evidenti ricadute negative per il clima congiunturale. Guardando all’inflazione, uno dei due obiettivi della Fed, l’indice al netto dell’impatto dei prodotti alimentari ed energetici, meno variabile, viaggia a novembre alla velocità del 2% annuo, in linea con gli obiettivi della banca centrale. Viceversa, l’indicatore complessivo cresce dello 0,5% su base annua. Anche per i salari il tasso di crescita annuale è tutt’altro che preoccupante, nell’intorno del 2%. D’altra parte perché preoccuparsi considerando che, al netto dell’inflazione, il reddito reale del ceto medio americano, che rischia l’estinzione, è stagnante dall’inizio degli anni settanta? In definitiva la Fed potrebbe restare inattiva senza scandalizzare nessuno. Il fronte internazionale. Se si allarga lo sguardo all’andamento dell’economia globale, sembrano rafforzarsi i venti della deflazione, alimentati dalla transizione dell’economia cinese da un modello di sviluppo basato sugli investimenti ad alta intensità di utilizzo di capitale e materie prime a un’economia di servizi e consumi. Fenomeno alla lunga positivo ma che per ora determina un visibile calo del tasso di crescita del commercio internazionale. La Cina importa di meno e a prezzi molto più bassi, inevitabilmente danneggiando i partner commerciali. È una spirale che si autoalimenta, gonfiata anche dai flussi di portafoglio, cioè dai movimenti del capitale finanziario. Il consistente eccesso di capacità produttiva accumulato dalle grandi compagnie minerarie internazionali e le enormi scorte di materie prime e semilavorati che la stessa Cina deve smaltire, verranno rimosse dal mercato molto lentamente. Il processo di riaggiustamento, che determina anche l’assorbimento delle riserve valutarie accumulate dalla Cina e dai paesi emergenti negli ultimi 15 anni, accompagnato dal ritorno verso l’occidente dei capitali finanziari degli investitori, favorisce l’indebolimento delle valute emergenti e l’impennata degli spread creditizi. Il forte aumento dell’indebitamento in dollari3 , che ha caratterizzato le economie in via di sviluppo negli ultimi anni, ingigantisce il rischio di fallimenti seriali soprattutto nel settore energetico. È un quadro di fragilità finanziaria potenziale che determina un’oggettiva condizione di restrizione finanziaria globale e che già nello scorso mese di settembre aveva indotto la Federal Reserve a non dare corso all’atteso rialzo dei tassi. Durante le ultime settimane il quadro è di nuovo peggiorato. I prezzi delle materie prime e del petrolio hanno toccato nuovi minimi, i rendimenti richiesti sui junk bond statunitensi hanno superato il 9%, il 12-13% nel segmento petrolifero, il 19% nel comparto con rating tripla C, il più basso prima del default. Le borse sono tornate in prossimità dei minimi dello scorso agosto. Anche la valutazione dello scenario globale, quindi, potrebbe giustificare l’inazione da parte della Federal Reserve. Una botta e via. Perché allora questo rialzo dei tassi? Per testimoniare simbolicamente l’uscita definitiva dalla grande crisi finanziaria. Per interrompere un’infinita attesa che oramai è un ulteriore elemento di nevrosi per i gestori dei patrimoni globali, ormai sull’orlo di una crisi di nervi. Janet Yellen userà i codici della rassicurazione, affermerà che il ciclo di rialzo seguirà un percorso molto graduale, coerente con una stabilizzazione dell’economia per ora visibile quasi solo negli Stati Uniti. Il livello “naturale” dei tassi d’interesse rimarrà quindi nettamente inferiore a quello dei cicli precedenti. Lo spettro da evitare è quello di una reazione incontrollata dei mercati finanziari, ormai in grado di condizionare fin troppo con effetti di retroazione le dinamiche economiche. Se lasciassimo la parola ai falchi della Bundesbank o agli economisti della Banca dei Regolamenti Internazionali, gli ultimi difensori dell’ortodossia monetaria, la necessità di normalizzare la politica monetaria sarebbe spiegata con parole molto diverse. Da una parte si enfatizzerebbero il potenziale di rischio sistemico che deriva dalla continua creazione di liquidità internazionale4 . Fattore sempre più preoccupante in prospettiva, con la globalizzazione che sta cambiando pelle e il forte rallentamento delle economie asiatiche. Dall’altra si metterebbe in discussione la stessa efficacia delle politiche di creazione della moneta. Le vicende dell’ultimo anno potrebbero suggerire che l’ora della dominanza della politica monetaria sta lentamente tramontando. L’economia globale è condizionata da forze che sono sempre più lontane dalla possibilità di controllo delle banche centrali occidentali. Nell’ambito finanziario, gli operatori reagiscono in modo sempre meno prevedibile alla decisioni o indecisioni delle Autorità Monetarie. La risposta a ulteriori stimoli monetari (vedi BCE) è sempre meno univoca. Basta osservare la strana somiglianza tra le dinamiche dei mercati del dicembre 2014 e quelle di questi giorni. È trascorso un anno e molto poco sembra essere cambiato: ora come allora valute emergenti e materie prime sono su nuovi minimi. Anche i mercati azionari sono più o meno agli stessi livelli, esclusi ovviamente quelli emergenti. Seguirà il solito effetto stagionale positivo fino in primavera? L’importante è non lasciarsi prendere dai nervi, al netto di tutte queste componenti.