Francesco Amoruso: In viaggio con Bukowski sono arrivato in Nessuna città

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di Rosina Musella

E’ stato pubblicato lo scorso venerdì 29 maggio il nuovo libro di Francesco Amoruso “Nessuna Città” le cui copie, preordinate online, sono partite per le consegne dai primi di giugno. L’autore organizzerà nei prossimi giorni una diretta per ringraziare chi ha dato fiducia a lui e al suo libro.
Francesco Amoruso, da anni in viaggio con le sue parole tra la musica e la prosa, pubblica il suo primo romanzo “Il ciclo della vita” nel 2010 e, quattro anni dopo, il suo primo disco “Il gallo canterino”, riflessione sulla società che, raccontata dalle note stridule di un gallo canterino in una strana fattoria, è un messaggio di azione verso l’impegno civile. Attualmente cultore della materia presso l’Università di Napoli Federico II, collabora con la professoressa Silvia Acocella come coordinatore del laboratorio ‘Tra scrittura e musica’ e, in questi dieci anni, si è dedicato allo studio e all’approfondimento delle sue passioni, pubblicando poesie, racconti e componendo brani musicali per sé e per altri. Lo scorso maggio hanno visto la luce due sue opere: il saggio “Charles Bukowski: La scrittura che esplode dal basso: l’America e il suo ubriacone”, edito Il Terebinto e il romanzo “Nessuna Città” edito Scatole Parlanti.
I nostri microfoni l’hanno raggiunto e lui ci ha raccontato di sé e dei suoi lavori.

Come vive lo scrivere musica e lo scrivere in prosa?

Per me non sono due cose distanti, oggi abbiamo una forte settorializzazione tra chi canta e chi suona, ma parliamo sempre di parole. Mi è stato detto di dover scegliere tra le due passioni, ma io non mi sono mai creato il problema. Alessio Arena, ad esempio, è un intellettuale che fa della parola scritta ciò che gli passa per la testa, io ho provato a fare la stessa cosa, quindi vivo di parole sia come appassionato, che come creativo. Non escludo, nel futuro, che questo scrivere possa riversarsi in altre forme.


Com’è cambiata la sua scrittura in questi dieci anni?

Tantissimo. Pubblicai il primo romanzo a ventidue anni, era imbevuto delle letture liceali e dei primi anni dell’università. In questi dieci anni sono cresciuto: ho preso due lauree, sto studiando per una terza, mi sono sposato, ho viaggiato, soprattutto ho letto tanto, quindi sono cambiato molto anche grazie alla conoscenza di diversi autori, da Bukowski ad Hemingway, da Fitzgerald a Proust. Ora quel romanzo lo scriverei in maniera totalmente diversa, nonostante all’epoca ebbe una discreta diffusione. Spero, tra dieci anni, di poter odiare “Nessuna città”, significherebbe che c’è stata un’ulteriore modifica di me e spero che questo accada sempre.

Cosa ha imparato dal suo lavoro con i giovani universitari?

I laboratori a cui prendo parte sono un ponte creato dalla professoressa Acocella tra l’università e gli studenti che ricercano qualcosa di creativo nelle facoltà classiche, che negli ultimi anni sono diventate sempre più scientifiche e meno creative. In questi incontri cerco di mettere a disposizione la mia esperienza. C’è l’aspetto didattico, perché indichiamo le basi della scrittura e della narrativa, però più che essere delle lezioni, sono uno scambio di punti di vista da entrambe le parti, nato per dar loro la possibilità di essere letti. Quest’anno è stata pubblicata un’antologia con i racconti degli studenti del laboratorio del primo anno, proprio per far capire che la scrittura può diventare un lavoro, quando invece spesso passa l’idea che l’arte sia solo divertimento e superficialità.



Di cosa parla “Nessuna Città”?

“Nessuna città” inizialmente rientrava in un ciclo di quattro racconti intelaiati in un quinto: una cosa mastodontica! Mentre scrivevo, però, mi sono reso conto che doveva diventare un romanzo. È una storia di pretesti, perché si svolge in un non luogo mai esplicitato, ma che in realtà è ben precisato e chi legge può capirlo. È un romanzo distopico, i cui personaggi principali sono Dana, un’archeologa stabilitasi in questa città da tanti anni, e Mario che vi torna dopo aver trascorso una vita in America. Il deus ex machina della storia è un libro sottratto a Dana che rivelerebbe la scoperta di una barca in cui, sul finire del XV secolo, avrebbe viaggiato Lorenzo de’ Medici per arrivare in questa città alla ricerca di pace, ma nel suddetto libro risulta che, giunto in città, egli sia stato attaccato; questa idea è nata a partire dall’interpretazione data da Benedetto Croce alla Tavola Strozzi, presente alla Certosa di San Martino. Il tutto, in realtà, è un insieme di pretesti di cui mi sono servito per raccontare dell’esistenza che pullula sotto la cupola che ricopre questa città eterna, che sembra sempre crollare, ma non lo fa mai. Penso che si sia capito quale sia la città, e infatti il mio tentativo non era quello di nasconderla, ma anzi metterla in mostra senza però sfruttarne il nome.

Quali autori e libri l’hanno segnato di più?

Tra tanti, sicuramente Bukowski; nel saggio uscito qualche settimana fa ho voluto cacciarlo via da quella patina di luoghi comuni che lo vogliono sporcaccione, ubriacone. Lui ha cambiato il mio mondo di pensare la parola: prima giravo intorno alle cose, usavo metafore, invece lui e tutta la letteratura americana mi hanno fatto capire che posso dire ciò che penso anche senza nasconderlo dietro perifrasi complicate. Poi ci sono i Russi, Douglas Adams che, con i suoi nonsense e giochi di parole traspare molto nello stile di “Nessuna città”, Hemingway, “Viaggio al termine della notte” di Céline che mi ha segnato tanto.

Cosa consiglia a chi vuole lavorare in questo campo?

La prima cosa è studiare, conoscere tutto ciò che abbiamo a nostra disposizione. Per me creare significa fare ciò che ci passa per la testa, ma per cambiare le regole bisogna avere consapevolezza di ciò che si sta stravolgendo. Io non ce l’avevo, all’inizio, l’ho acquisita man mano. Mi piace molto citare Said: “Gli intellettuali e gli artisti sono tutti dilettanti, nel senso che si dilettano e nel dilettare imparano e crescono”: bisogna essere continuamente con le mani in pasta a giocare.

Cosa direbbe al sé ventenne?

Gli direi di rifare tutto quello che ha fatto. Sono contento. Sicuramente ho preso alcune strade sbagliate che mi hanno rallentato, ma alla fine ho fatto ciò che volevo. Posso ritenermi soddisfatto di ciò che ho fatto, senza agganci, senza aiuti, ho rischiato, ho ricevuto batoste. Magari gli consiglierei di non prendere parte a concorsi, perché mettono in competizione forme d’arte. Sono cresciuto nell’associazione Illimitarte di Raffaele Cardone a Villaricca, e loro organizzavano l’iniziativa ‘Awop: A World Of Peace’, in cui tutta la città veniva divisa in tappe, ciascuna dedicata ad artisti Europei e talvolta anche Nordafricani, per dar vita ad uno spazio inclusivo, aperto a tutti. Preferisco realtà del genere. Forse, però, dovevo scoprire tutto questo con l’esperienza, se non mi fossi buttato a fare i concorsi non avrei avuto questo pensiero.