Fuga dei cervelli dal sud: cause e rimedi. La parola al professore Aldo Masullo

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La “fuga dei cervelli” è quel fenomeno, tristemente attuale, che vede i giovani, soprattutto laureati e professionisti, costretti alla diaspora verso l’estero per iniziare – in pochi casi per migliorare – la propria attività lavorativa.

Le cause sono da ricercare, senza ombra di dubbio, nel mutato contesto lavorativo e professionale, ormai globalizzato, soprattutto se si guarda al sistema imprenditoriale e industriale. E così diviene quasi obbligatoria un’esperienza all’estero, perché arricchisce il curriculum e il bagaglio di competenze. Ciononostante, è più difficile accettare l’emigrazione a tempo indeterminato dei nostri giovani dovuta a mancanza di lavoro e di opportunità. Tale condizione, infatti, non nuoce solo alle famiglie in termini umani e affettivi, ma anche e soprattutto, in termini sociali ed economici, al territorio nel quale questi giovani hanno vissuto e si sono formati.

Secondo uno studio dell’Ocse, infatti, per ogni studente italiano, dall’asilo all’università, lo Stato, e quindi la collettività, investe oltre cento mila euro. E allora, insieme a ciascun laureato che si trasferisce definitivamente all’estero, “fugge”anche l’anzidetto investimento in istruzione, sapere e conoscenza, senza contare che quel cervello contribuirà, invece, ad arricchire lo Stato nel quale trasferisce la residenza, in termini di produttività e pagando le tasse lì e non in Italia.

A ricordarci i dati di questo fenomeno è arrivato il 1° agosto l’ultimo Rapporto annuale dello Svimez, l’Istituto per Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno, secondo il quale, negli ultimi 16 anni, hanno lasciato le regioni meridionali 1 milione e 883 mila residenti. Di questi la metà ha tra i 15 e i 34 anni, un quinto sono i laureati e ben 800 mila non sono tornati.

Analizzando con attenzione questi dati è possibile affermare che ogni anno vanno via dal Sud 117.687 persone, pari a 9.807 al mese, 322 al giorno, 13 all’ora.

Un tema, anzi un problema, che la Fondazione Ordine Ingegneri Napoli, presieduta da Paola Marone, ha deciso di approfondire dando vita al ciclo di interviste “Fuga dei cervelli dal Sud: cause e rimedi”. Un confronto articolato che si svilupperà con intellettuali, imprenditori, professionisti, docenti, esponenti qualificati a vario titolo della società civile.

“Vogliamo contribuire anche così – chiarisce Paola Marone – a mettere a fuoco idee e proposte che possano poi essere tradotte in iniziative operative anche dalla nostra Fondazione che, ricordiamolo, si prefigge anche di contribuire allo sviluppo e al futuro della professione ingegneristica, specie se in sintonia con la crescita del nostro territorio”.

Come sottolinea il Presidente dell’Ordine degli ingegneri di Napoli, Edoardo Cosenza, “Intravedo qualche debole segnale di ottimismo, dal mio osservatorio di professore ad Ingegneria e Presidente dell’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Napoli: tanti iscritti (il 25% delle matricole) ad Ingegneria. E’ vero che molti vanno via per periodi brevi o per sempre, magari occupando posti di grande rilievo, ma Napoli rimane la provincia nettamente seconda in Italia per iscritti all’Ordine. E poi non bisogna dimenticare tutto quello che sta nascendo a San Giovanni a Teduccio, finalmente con tanti stranieri che vengono a Napoli a studiare e creare ricchezza con la iOS Academy di Apple e Federico II, e fra poco con Cisco e Tim wk. Anche l’esperienza della Deloitte Academy si sta dimostrando un successo. Non abbiamo grandi numeri, ma certamente si tratta di risultati in controtendenza e di rilevante qualità”.

Ad aprire questo ciclo di interviste è una delle figure più alte del pensiero meridionale e italiano: il filosofo Aldo Masullo, classe 1923, già docente ordinario di filosofia all’Ateneo Federiciano, per due legislature Senatore della Repubblica. Masullo è da sempre una delle figure del pensiero contemporaneo più stimate e amate per il rigore scientifico abbinato a un slancio progressista e innovativo. Di recente al Professor Masullo – di origini avellinesi e di formazione giovanile torinese – è stata conferita la cittadinanza onoraria di Napoli.

Professore Masullo, perché i giovani fuggono da Napoli e dal Sud, impoverendo il territorio?
Dovremmo anzitutto porci un’altra domanda.

Quale?
Ritengo che occorra chiedersi: che cosa bisogna fare perché un giovane, il quale abbia deciso di vivere esperienze operose lontano dal Sud, trovi il coraggio di ritornare. Fare esperienze, lavorative e formative, lontano dal proprio territorio, non è affatto un male, anzi.

Cosa, secondo lei, può innescare questo “coraggio di tornare”?

Occorre che nel territorio, da cui si è emigrati, si mostri finalmente qualche positiva novità, un aprirsi della società, ben oltre la sterilità degli ottusi particolarismi, l’affermarsi dello sforzo solidale, il dischiudersi di promettenti orizzonti.

E per ottenere questo clima che cosa occorre?
Anzitutto una classe dirigente adeguata, che oggi il Sud non è in grado di esprimere. Essa dovrebbe innanzitutto esser capace di riorganizzare le condizioni strutturali della vita civile, dal costume alle istituzioni amministrative, dalle scuole ai servizi.

La voglia di fare nuove esperienze e quindi di spostarsi non è un fatto negativo.
Certamente: ma diventa un fatto negativo quando il muoversi diventa fuga, quando si tratta non di una scelta ma di una necessità, magari dettata dalla disperazione.

Anche lei, del resto, ha svolto significative esperienze formative all’estero.
Lei è bene informato. Sì, negli anni Cinquanta perfezionai la mia formazione, tra l’altro, per qualche anno in Germania, a Friburgo. Avevo allora già conseguito in Italia il titolo, allora previsto, di “libero docente”.

In quegli anni quali erano le aspettative del giovane Masullo, appena laureato, ma già con un brillante bagaglio culturale e formativo?
Avevo compiuto i miei studi universitari mentre cadevano le bombe. Mi ero laureato poco dopo la liberazione di Napoli. Non c’era molto da essere ottimisti. Vivevo le difficoltà, come tutti del resto, di essere cittadino di una nazione sconfitta, piena di macerie materiali e morali. C’era forte disagio, senso di diffusa precarietà, incertezza, il tutto ancor più lacerante qui nel Mezzogiorno. Il Paese trovò però rapidamente la via della ripresa e anche al Sud, specie per giovani di adeguata formazione, la morsa della crisi occupazionale si allentò notevolmente. Non bisogna però mai dimenticare che il nostro malessere aveva radici antiche e che da sempre per i giovani meridionali e napoletani, anche ben formati, non era facile trovare lavoro. Spesso essi spendevano altrove le loro competenze.

Quali le cause?
Semplificando potrei dire che ai giovani, specie ai giovani di talento, il Sud “stava stretto”. C’era la consapevolezza che il Mezzogiorno non era pronto ad assorbire e a valorizzare adeguatamente le migliori risorse umane e intellettuali che pure era stato capace di generare.

Come è cambiato il quadro per effetto della ripresa postbellica e fino agli anni Ottanta?

Per alcuni decenni chi voleva restare al Sud, se dotato di un bagaglio formativo adeguato, poteva anche, sia pur faticosamente, trovare spazio grazie ad un riavviato sviluppo, sostenuto soprattutto dall’intervento pubblico, nella cornice degl’interventi strutturali della Cassa del Mezzogiorno prima e dell’industria di Stato poi. In questo quadro, l’emigrazione dei cervelli per un certo tempo cambiò carattere: non fu più una fuga, ma una sfida.

Intende dire che si emigrava lo stesso, ma con uno spirito diverso?

Completamente diverso. Chi sceglieva di farlo – qualora, ripeto, portatore di competenze qualificate – si decideva o per giovanile sete di nuove esperienze o per conquistare più alti livelli di benessere e ricevere soddisfazioni più adeguate a sue fondate ambizioni. In ogni caso non era una necessità di sussistenza a spingere, ma un’espressione di libertà personale. Ciò non toglie che la scelta era nel fondo sostenuta dalla consapevolezza che il mercato del lavoro, legato all’innovazione e alle competenze, non si trovava al Sud.

Poi che cosa è accaduto?

Negli anni Novanta il sistema è andato in crisi, si è assistito allo smantellamento di quel poco di industria di Stato che pure, come ho detto, aveva qua o là sostenuto questa parte debole del Paese. I giovani meglio preparati hanno capito che in casa gli spazi per un lavoro in sintonia con la loro preparazione e le loro giuste aspettative e ambizioni si erano ridotti al minimo. La vicenda di Bagnoli, in questo senso, è emblematica. Si sono emanate leggi su leggi, prodotti studi e ricerche ponderosi, spesi fiumi di denaro pubblico ma, dopo la chiusura degli ultimi altiforni, la zona è tuttora un’area industriale dismessa, un deserto, senza che s’intraveda quel meraviglioso futuro fatto di terziario, turismo e ricerca avanzata, che si era enfaticamente ipotizzato dopo la chiusura del polo siderurgico di Stato.

A chi va attribuita la colpa?

Molte responsabilità pesano sulla nostra borghesia, che non ha saputo essere classe dirigente nel senso proprio e alto del termine. Giorni fa sfogliavo un‘interessante rivista, “Nagorà”, pubblicata nell’ambito di un’iniziativa culturale promossa dall’Acen, l’associazione dei costruttori napoletani. C’erano contributi di pensiero e di analisi delle migliori intelligenze della città, vi ho ritrovato le riflessioni di cari amici, e persino un mio piccolo contributo. Mi sono chiesto: perché mai questo patrimonio di competenze e di idee non è riuscito a tradursi in energia di classe dirigente, al servizio del bene comune? Dove erano queste intelligenze nel momento in cui di volta in volta si decidevano i destini di Napoli e del Mezzogiorno?

Lei si è soffermato sul “particolarismo” di un certo modo di gestire la cosa pubblica. E’ un problema esclusivamente del Mezzogiorno?
Direi che purtroppo è un vizio antico del Mezzogiorno, mortificato da un millennio di asservimento a sovranità straniere, dunque alla ricerca individuale o di gruppo del favore per sé, anziché alla lotta contro il comune padrone. L’effetto l’ho visto nelle mie esperienze parlamentari. Mi spiego: quando nelle più alte sedi istituzionali si trattava di battersi per un provvedimento che potesse favorire un interesse del Settentrione, si attivavano compatte le convergenze di tutte le forze, associate nell’interesse comune, ben oltre gli schieramenti di parte. Tra le varie forze del Mezzogiorno questo invece si verifica assai raramente, per non dire mai. Prevalgono sempre i particolarismi divisivi. Questo è, purtroppo, lo stato socio-politico della situazione, il difetto culturale, su cui sempre deraglia il cammino del nostro Mezzogiorno. Solo quando sarà almeno avviata la visibile rimozione di questo ostacolo formidabile, i nostri “emigrati” potranno sentirsi incoraggiati a tornare.