Galan a Camera si difende ma Giunta vota decadenza

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Primo sì della Camera alla decadenza da deputato per Giancarlo Galan. La Giunta delle elezioni ha infatti votato, a maggioranza, a favore e ora la palla passa all’Aula. Non è dunque bastata l’arringa difensiva di Giancarlo Galan, ex governatore del Veneto e ministro nei governi Berlusconi, che dopo una lunga assenza è tornato alla Camera per respingere le accuse in base alle quali sta scontando una condanna a due anni e dieci mesi.

L’ex ministro arriva con qualche minuto di ritardo, teso ma non più emaciato, prende appunti e si asciuga più volte il sudore mentre ascolta la relazione introduttiva di Alessandro Pagano (Ap) che ha l’obiettivo, così come recita il regolamento, di riferire i fatti “senza giudizio”. Poi, prende la parola davanti ai colleghi e riavvolge il nastro al luglio 2014, quando la Camera votò l’autorizzazione per il suo arresto in merito all’inchiesta sul Mose. Un “episodio particolarmente amaro”, dice, e dal quale secondo la sua ricostruzione “discende tutto”.

Galan, che rivendica un “processo” e la possibilità, finora negata secondo lui, di essere “interrogato”, punta il dito contro una decisione presa in sua assenza, bloccato da gravi questioni di salute (che ancora oggi lo costringono a venire a Roma accompagnato da un medico): “Sono qui – sottolinea – per chiedere scusa per non essermi dimesso da presidente e da parlamentare ma non è dipeso da me e però – aggiunge – la scelta dell’arresto in carcere e non ai domiciliari” era una strumento “necessario per esercitare la più violenta delle forme di pressione per portarmi al patteggiamento”. Che d’altro canto, rivendica, era l’unica strada per tornare ad avere un poco di vita normale.

Anche perché il carcere “è un’esperienza devastante e ha un effetto straziante, tanto da avermi fatto perdere 22 chili in 70 giorni”. Per non parlare, dice guardando più volte i colleghi, degli effetti sulla famiglia. Ed è così che Galan decide di toccare le corde sentimentali, parlando anche della figlia “che ha una grave malformazione cardiaca” e che per un periodo “è anche tornata a fare pipì a letto”. Salvo poi cambiare repentinamente piano e passare ad attaccare i suoi accusatori. A patteggiare, è la tesi quindi dell’ex ministro, fui “costretto” ma tra “le conseguenze non mi aspettavo la decadenza, mi fidavo – ribadisce un paio di volte – delle parole del ministro Orlando che aveva detto che la Legge Severino non si applicava al mio caso”. Ed è proprio la questione della retroattività o meno della legge Severino a dividere i deputati: solo Forza Italia e Ala (Ap si è astenuta) hanno sostenuto e ribadito l’impossibilità di applicare queste norme a Galan. “La legge Severino – dicono Deborah Bergamini e Gregorio Fontana, membri di Forza Italia della Giunta – non esisteva quando Giancarlo Galan avrebbe commesso i fatti per i quali è stato condannato. Com’è possibile applicarla al suo caso?”.
   

Primo sì della Camera alla decadenza da deputato per Giancarlo Galan. La Giunta delle elezioni ha infatti votato, a maggioranza, a favore e ora la palla passa all’Aula. Non è dunque bastata l’arringa difensiva di Giancarlo Galan, ex governatore del Veneto e ministro nei governi Berlusconi, che dopo una lunga assenza è tornato alla Camera per respingere le accuse in base alle quali sta scontando una condanna a due anni e dieci mesi.

L’ex ministro arriva con qualche minuto di ritardo, teso ma non più emaciato, prende appunti e si asciuga più volte il sudore mentre ascolta la relazione introduttiva di Alessandro Pagano (Ap) che ha l’obiettivo, così come recita il regolamento, di riferire i fatti “senza giudizio”. Poi, prende la parola davanti ai colleghi e riavvolge il nastro al luglio 2014, quando la Camera votò l’autorizzazione per il suo arresto in merito all’inchiesta sul Mose. Un “episodio particolarmente amaro”, dice, e dal quale secondo la sua ricostruzione “discende tutto”.

Galan, che rivendica un “processo” e la possibilità, finora negata secondo lui, di essere “interrogato”, punta il dito contro una decisione presa in sua assenza, bloccato da gravi questioni di salute (che ancora oggi lo costringono a venire a Roma accompagnato da un medico): “Sono qui – sottolinea – per chiedere scusa per non essermi dimesso da presidente e da parlamentare ma non è dipeso da me e però – aggiunge – la scelta dell’arresto in carcere e non ai domiciliari” era una strumento “necessario per esercitare la più violenta delle forme di pressione per portarmi al patteggiamento”. Che d’altro canto, rivendica, era l’unica strada per tornare ad avere un poco di vita normale.

Anche perché il carcere “è un’esperienza devastante e ha un effetto straziante, tanto da avermi fatto perdere 22 chili in 70 giorni”. Per non parlare, dice guardando più volte i colleghi, degli effetti sulla famiglia. Ed è così che Galan decide di toccare le corde sentimentali, parlando anche della figlia “che ha una grave malformazione cardiaca” e che per un periodo “è anche tornata a fare pipì a letto”. Salvo poi cambiare repentinamente piano e passare ad attaccare i suoi accusatori. A patteggiare, è la tesi quindi dell’ex ministro, fui “costretto” ma tra “le conseguenze non mi aspettavo la decadenza, mi fidavo – ribadisce un paio di volte – delle parole del ministro Orlando che aveva detto che la Legge Severino non si applicava al mio caso”. Ed è proprio la questione della retroattività o meno della legge Severino a dividere i deputati: solo Forza Italia e Ala (Ap si è astenuta) hanno sostenuto e ribadito l’impossibilità di applicare queste norme a Galan. “La legge Severino – dicono Deborah Bergamini e Gregorio Fontana, membri di Forza Italia della Giunta – non esisteva quando Giancarlo Galan avrebbe commesso i fatti per i quali è stato condannato. Com’è possibile applicarla al suo caso?”.