Geopolitica e Storia Conferenza

Dicembre 2016

La geopolitica è una strana scienza o, più esattamente, uno specifico “stile di pensiero”.

 Se, in Storia, si tratta di ricostruire i fatti e interpretarli ex post, secondo la classica e  ancora esatta linea ciceroniana dell’”Historia magistra vitae”, nella geopolitica la  di fondo  è futura, non passata: cosa devo fare, nella Storia, per raggiungere certi risultati?

 Quali le condizioni di partenza, i limiti, le opportunità, tra quelle che si presentano come la Fortuna machiavelliana, una volta sola, o quelle che riguardano le costanti materiali di un Paese?

 Certo, tutte le scienze sociali sono, lo diceva sempre Giovanni Sartori,  delle serie di dati in cui vedere le somiglianze o meno, ma quali sono i dati per fare un buon progetto geopolitico?

 Tenterò di dare una risposta: l’applicazione geopolitica della storia consente, a chi abbia il carattere e il talento per farlo, di migliorare sensibilmente le sorti del proprio Paese o addirittura di cambiarle.

 Perfino di rovesciarle, talvolta. Come noi, dopo la Seconda Guerra Mondiale, e il Giappone, un altro sconfitto, che eravamo entrambi i vincitori del dopoguerra.

 De Gasperi fece infatti  benissimo a dire, aprendo il suo intervento alla Conferenza di Parigi del 1947, che lui sapeva come “solo la personale cortesia dei vincitori” era dalla sua parte.

 Ma l’Italia ebbe comunque il protettorato sulla Somalia, che finì nel 1960.

  Fu quella una scelta geopolitica seria?

 Si, perché tutti sapevano che la fase coloniale era agli sgoccioli, e che il ciclo geografico ed economico di allora poteva fare a meno dell’impianto coloniale. 

 Era la geopolitica dell’interscambio tra Paesi industriali, mentre il Terzo Mondo, quando poteva, giocava la carta delle rendite sule materie prime o, nei socialismi filosovietici, di creare “industrie di sostituzione” per ridurre le nostre esportazioni e rallentare il nostro sviluppo.

 Dopo, il grande sviluppo italiano degli anni ’60, incentrato sulle grandi imprese di Stato.

 Le imprese private si svegliavano, comunque, tramite l’export e un mercato interno in rapidissima crescita.

 Altra lezione, che i governi attuali dovrebbero ripensare: non ci sono economie tutte da esportazione, che uccidono i loro mercati interni per fare meglio concorrenza ai “grandi”. E’ una sciocchezza e una follia.

 I due mercati si devono sviluppare armonicamente.

 Me lo ricordo bene, ne sono stato protagonista. Il rilievo geostrategico? Semplice.

 Si trattava di fare la concorrenza ai nostri alleati senza farsene accorgere, magari invocando i giusti motivi delle nostre aperture nel Terzo Mondo, dove gli “imperialisti” che avevano vinto il secondo conflitto mondiale non erano molto benvisti.

 Senza materie prime, ma con molta forza-lavoro disponibile e una posizione mediterranea perfetta, il nostro destino era segnato.

 Lo Stato gestiva le materie prime a prezzo conveniente per le imprese, e quest’ultime innescavano lo sviluppo interno.

 La spesa pubblica in crescita era  allora finanziata con la stessa crescita.

  L’azzardo veniva bene perché cercavamo, da grandi professionisti, e me lo ricordo bene Guido Carli al nostro Ufficio Cambi e poi in Banca d’Italia, di evitare gli effetti inflazionistici della crescita da esportazioni con monete diverse e, spesso, manipolate apposta per crearci problemi.

 Grado di percezione geopolitica dell’Italia in quella nostra classe dirigente? Massima.

 Rispetto ad oggi, gli scontri tra Colombo e Giolitti sono alta scuola, qui siamo ora all’asilo infantile.

 Sapevamo, sapevano che il nostro meccanismo di sviluppo era quello delineato dal mix Stato+Mercato, ma senza farci troppe illusioni sul livello di consapevolezza delle nostre imprese private.

 Socialismo di Stato?

 In qualche momento sì, ma era l’unico modo per crescere rapidamente e senza troppi shock inflazionistici  o asimmetrici.

 Se vuoi la velocità, devi avere una economia fortemente programmata, se invece ti interessa la capacità  di adattamento ai mercati,  allora puoi farti trasportare dalla lentezza delle tante libere transazioni casuali.

 Avevamo tranquillamente ereditato lo schema delle imprese pubbliche costruito dal fascismo, tra IRI, IFI e le altre società pubbliche di riqualificazione delle imprese;  ma lo avevamo adattato alla teoria del personalismo sociale, tra Emmanuel Mounier, l’intellettuale di riferimento per Paolo VI, e la straordinaria  eredità del “Codice di Camaldoli”, il testo con cui i cattolici si erano posti alla guida della nuova Italia Repubblicana.

 Grado di coerenza geopolitica? Anche qui massimo.

 Noi cattolici sociali eravamo l’unica forza politica presente in forze in Italia, nell’Italia vera e profonda, la rappresentavamo pienamente e avevamo un rapporto ottimo con gli USA.

 Difendere la Tradizione e il nostro Popolo dopo una sconfitta e intanto preparare la rivincita economica.

 Abbiamo poi trasformato un aiuto temporaneo, il Piano Marshall, l’ERP, European Recovery Program,  da aiuto economico e umanitario postbellico, molto meno rilevante di quanto oggi non si creda, nel primo  piano della ricostruzione di tutta la nostra economia, anche di quella che dava fastidio ai nostri vincitori.

 Il livello di percezione del posto dell’Italia nel Mondo, tra Pasquale Saraceno, Ezio Vanoni e, scusate la modestia, chi vi parla,  fu quasi completo.

 Noi dobbiamo quindi  ringraziare i nostri amici anglosassoni;  ma non dobbiamo ridurci a ruota di scorta del loro ciclo economico.

 L’Italia è e deve essere padrona del Mediterraneo e aprirsi i mercati dell’Est, perfino a quelli dell’Unione Sovietica, e addirittura  avendo  in casa il maggior Partito Comunista del mondo, in termini elettorali.

 Era la nostra idea, e la giocavamo con una immagine dell’Italia giovane, energica, libera e democratica.

 Vi seguiamo nella “guerra fredda”, dicevamo ai nostri Alleati, e pure quanto noi abbiamo fatto in questo campo non verrà mai scritto, ma non rompeteci le scatole quando si tratta di aprire i mercati alle nostre manifatture.

 E questa percezione ci fu anche quando, con Enrico Mattei, Francesco Cossiga, Bettino Craxi, rompemmo qualche uovo nel paniere agli amici britannici e americani.

 Il potere politico pensava le grandi strategie economiche e sociali e addirittura il modo in cui farle digerire ai più riottosi tra i nostri amici dell’Ovest.

  Quella era  la libera competizione geopolitica tra le nazioni, noi ci riprendevamo la storia nostra dopo vent’anni di congelamento protezionistico.

 Ma noi ci proteggevamo bene, molto bene, perfino meglio dei nostri concorrenti giapponesi.

 Si dirà che facevamo i “panettoni di Stato”, ma se i noti marchi familiari si perdono in divertimenti e debiti, che colpa ne aveva lo Stato che recuperava  gli impianti e le maestranze,  e continuava a produrre ottimi dolci?

 Tutto finisce però  con la fine dei cambi fissi del 1971.

I petroli divengono mercati primari del Dollaro, e strettamente  il ciclo dell’economia USA, mentre Kissinger si mette d’accordo con i sauditi per “gestire” i petrodollari che arrivano dagli aumenti petroliferi dopo la “Guerra del Kippur”.

 Così l’America finanzia la guerra del Vietnam e il suo progetto, fallito, di “Nuova Società”, un welfare state tascabile nella terra dell’estremismo privatistico protestante.

 Eravamo talmente esatti nelle nostre percezioni geopolitiche che, se eravamo stretti amici degli arabi in Medio Oriente, eravamo anche un punto di riferimento stabile e sicuro per i nostri amici israeliani.

 Non era doppiezza, ma piena coscienza geopolitica dei nostri limiti e delle nostre potenzialità.

 E, soprattutto, dovevamo proteggere il nostro tasso di sviluppo.

 Con il caso Moro finisce però  Prima Repubblica, l’era in cui l’Italia con Andreotti, Craxi, Cossiga, lo stesso Moro, Ugo la Malfa e i tanti amici banalmente definiti “laici” avevamo ricostruito il nostro Paese proprio a partire da una perfetta cognizione geopolitica e strategica del nostro nuovo ruolo nel mondo.

 Moro muore e si destabilizza la nostra rete di sicurezza globale, militare ma anche economica, induttivamente trapelata dalle BR ai nostri concorrenti e nemici, economici o meno.

 E’ stata  quindi la fine della nostra “geopolitica segreta” con Aldo Moro a bloccare la crescita economica e la nostra formula produttiva vincente.

 E oggi?

 Se c’è una classe politica che non capisce nemmeno i primissimi elementi di pensiero geopolitico, questa è appunto l’attuale classe politica e dirigente italiana.

 Abbiamo venduto tutto solo per fare cassa e per rientrare nella eterna quaresima della  stagnazione secolare, che è un ciclo di Kondratiev negativo per tutti, ma soprattutto per chi lo subisce da parte dei propri concorrenti.

 L’entrata nell’area Euro, che non doveva essere scontata, fu svolta calcolando gli ultimi sei mesi di rapporto Lira-Marco tedesco, un periodo particolarmente buono per noi.

 Come se noi dovessimo fare, a sessanta anni, i salti della nostra giovinezza.

 Nessuno disse niente, in quel momento.

 A loro conveniva, erano diventati concorrenti globali dell’Italia, ma noi potevamo fare le nostre rimostranze, che non ci furono.

 La Thatcher, Mitterand, Kohl, continuamente in contatto con Cossiga, accettarono infatti  l’unificazione tedesca solo perché prendevano il Marco tedesco in ostaggio, come avevano fatto con l’Aspirina, e lo chiamarono Euro.

 Gli statisti di quell’Europa lo sapevano perfettamente, i nostri politicanti prendono invece  tutto per dato, sono selezionati solo per la loro apparenza televisiva, sono ormai in preda ai soldi delle lobbies.

  Nel nostro Parlamento sono infatti circa 40 quelle operanti alla luce del sole.

 Le nostre classi politiche della Prima Repubblica trattavano ovviamente con i rappresentanti degli interessi ma, salvo qualche raro caso, non si facevano condizionare.

 Troppo forte era il controllo del Partito perché avvenisse il peggio.

  Ora, dopo le privatizzazioni a cavolo, e quello era il vero motivo del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, lo Stato non organizza la vita economica;  e se ne vedono i risultati.

 I privati non possono mai avere la vista lunga, e organizzare grandi imprese per lunghi anni.

 Non ci sono i capitali, la famiglia dei proprietari si divide, gli eredi non sono all’altezza.

 Il liberalismo puro va bene per le imprese piccole, per le grandi e grandissime ci vuole lo Stato, con il suo potere normativo, la sua ricchezza di capitali, i suoi manager professionali.

 Così come la guerra è una cosa troppo seria per farla fare ai generali, l’economia è una cosa troppo importante per farla fare solo ai capitalisti.

 Oggi, poi, è come se fosse rimasta la memoria della geopolitica della Prima Repubblica in contesto diverso, producendo risultati talvolta grotteschi.

 Un “mito americano” che perdura, mentre gli USA oggi guardano oltre l’Europa che considerano ormai rovinata, e quindi possibile preda.

 Una fedeltà tenera e comica verso chi utilizza le leve economiche e strategiche per farci fuori, come gli acquisti facili delle nostre imprese e la mancata espansione economica, che ci rende, appunto, prede altrui.

 Non abbiamo nemmeno colto l’occasione della Brexit.

 Non abbiamo nemmeno più le banche: nel periodo del “Quantitative Easing” iniziato da Mario Draghi le passività della Banca d’Italia nell’Eurosistema sono calate a picco: a settembre sono arrivate a -354 miliardi di Euro.

 Non abbiamo le banche, e quindi le transazioni dell’area monetaria europea ci penalizzano, mentre i capitali se  e vanno.

  E quando finirà, per la gioia dei tedeschi, il Quantitative Easing europeo, cosa sarà dei nostri fondi e titoli di debito pubblico, che pochi in realtà vogliono alle attuali condizioni?

 Non vi è nemmeno un sospiro, tra le nostre classi politiche, che ci faccia pensare ad una qualche ipotesi di lavoro, o che almeno sappiano cosa sta succedendo.

 L’idea sembra essere quella che tutto è ineluttabile e oscuro, tanto vale quindi dedicarsi a Twitter, alla TV, alle comparsate in qualche talk show, insomma alla stupida “immagine”.

  Certo, il boom degli investimenti esteri in imprese italiane piccole e medie c’è e si tratta quasi sempre di quote di minoranza, ma allora dove vanno i profitti?

  Nel mondo della moda, il modello assoluto del “Made in Italy”, gli arabi si sono comprati quasi tutto:  Bahrein (Corneliani, Dainese, Tiffany, Gucci) ma”Valentino” è stato acquistato dal Qatar, 15.800 aziende francesi sono presenti nel nostro territorio, per non parlare delle banche: BNL-Paribas, Crédit Agricole, EDF nell’energia ha comprato la Edison, ma anche il trasporto pubblico in alcune città del Nord e in Toscana.

 Niente di male, in linea di principio, ma noi come rispondiamo a questi attacchi?

 Facciamo almeno lo stesso? Macché.

 Abbastanza bene, oggi la penetrazione italiana nei sistemi produttivi UE e USA,  ma non ancora  abbastanza.

  Il livello dei nostri acquisti “fuori area” non è certo tale da equiparare quello che va via. 

 Siamo, secondo i miei calcoli, ad un 24% operato da noi all’esterno del totale delle acquisizioni straniere in Italia.

 Unicredit è al 9,7% a capitale islamico, tra il fondo Abaar degli Emirati e la LIA, la vecchia banca di Gheddafi, ora contesa tra le due fazioni maggiori.

   Lo stesso, con percentuali diverse,  in BPM e con l’accordo tra Sanpaolo e la banca nazionale del Qatar.

 Credete che tutti questi affari, grandi e politicamente significativi, siano governati da chi di dovere?

  Macché, c’è solo il mito ingenuo del mercato che si autoregola, figurarsi.

 Temo che anche per la sicurezza militare e informativa accada lo stesso, tutti possono comprare qualsiasi cosa senza che il Servizio possa dire “no”!

 La Borsa italiana è di proprietà, lo sappiamo tutti, di quella londinese.

  Ma c’è anche, nella compagine sociale di Piazza Affari,  una banca del Dubai e un altro fondo sovrano di investimenti del Qatar.

  Anche qui, flussi di potere che vagano senza comando, discernimento, spesso senza nemmeno che gran parte della classe di governo ne sappia qualcosa.

 Avrà un qualche effetto questo assetto di potere per le nostre politiche in Medio Oriente, avranno o meno influsso sulle nostre decisioni queste dislocazioni di capitali?

  Ovvio che si, ma i flussi vanno comandati, altrimenti sono loro che comandano noi.

 Il mercato è libero, ma il governo lo deve gestire lo stesso.

  Le nazioni non sono sparite nel mondo liquido di cui parla il fin troppo famoso sociologo Bauman, ma si sono ricollocate, lo fanno ogni giorno, in un contesto in vi è una guerra continua e strisciante, ma non dichiarata.

 E’ lo scontro tra aree del mondo, che si gioca in una infinità di luoghi, astratti e concreti.

 L’Europa è destinata infatti a perdere e a essere frantumata in zone, vogliano o meno i governi.

 Chi rimane nazione ha vinto, quindi.

 Si spacca e diviene “liquido” colui che perde.

 L’altro polo è quello USA, che si autonomizzerà sempre di più dalla perdente UE.

  In Sudamerica e Africa si creeranno “bolle” a caratteristiche omogenee per tipologia produttiva, ma si modificheranno con grande rapidità, e lo stesso accadrà all’Italia centromeridionale, che sarà “attaccata” al Nordafrica, fino a diventare un’area economicamente e strategicamente omogenea.

 Il Nord Italia, la Svizzera, l’Austria e la Slovenia tenderanno, anche loro, a costruire un blocco unitario, la Germania centrale e la Francia reciteranno ancora la scena dell’unità della Kerneuropa, mentre la Scandinavia, le repubbliche postsovietiche della vecchia Lega Anseatica e l’Olanda si integreranno a Nord.

 L’Italia ha perso, lo ripetiamo, e quindi sarà divisa, lo dicano o meno le leggi o le Regioni.

  E qui, comunque, tanto per ulteriormente segnalare la nostra crisi, quella crisi italiana di chi ha perso definitivamente la battaglia per la globalizzazione, ci sono i ragazzi che se ne vanno via dall’Italia dopo la laurea, o comunque per “cercar fortuna” altrove, ora che il nostro Paese è al centro di tutte le sfortune.

  Un Paese morto non può dare speranza alla vita, che sono appunto i giovani.

 Certo, perché uno dovrebbe rimanere qui senza prospettive?

  Già, ma lo Stato e le famiglie pagano profumatamente gli studi;  e i risultati di queste professionalità vengono utilizzate da altri Paesi, che non vi hanno investito un euro.

 Sono 107.529 gli italiani espatriati stabilmente nel 2015. Non tutti si iscrivono all’Anagrafe degli Italiani all’Estero, AIRE, quindi possiamo tranquillamente arrivare anche al doppio di questa prima cifra.

 Il 36,7% di questi 107.000 circa sono giovani tra i 18 e i 35 anni, che vanno in Germania come tanti anni fa, prima che arrivasse la nostra grande Riforma postbellica, andavano molti dei loro nonni.

 Non c’è autostrada tedesca, cavalcavia svizzero alpino che non porti dentro di sé il sangue caldo dei nostri ragazzi del Sud.

  Il 69,2% di chi si è trasferito, lo ha fatto comunque in Europa.

 Quindi bastava poco per tenerli, le omologie con i nostri colleghi UE sono ancora tante.

  Gli anni di università costano in media 3000 euro per chi non deve muoversi da casa e oltre 8-9000 per i giovani fuori sede.

 Il conto è presto fatto, dato che gli immatricolati totali 2014-2015, gli ultimi dati che abbiamo, sono 270.145.

 Una massa immane di ragazzi e di investimenti, che viene distrutta in un circuito chiuso fatto di fine di ogni speranza, di porte sbattute in faccia, di lavoretti sottopagati per i quali certo non dovevi studiare, di una vita biologica, affettiva e professionale che, se si realizza, lo fa fuori tempo massimo.

 Non è qui un problema di soldi, è la morte della speranza d’Italia, che si legge negli occhi dei tanti ragazzi che studiano, spesso ottimamente, e non hanno di che utilizzare, crescere, trasformarsi e modificare il Paese, nel cerchio ripetitivo della vita a mille euro il mese, quando ci sono.

 E non parliamo nemmeno di quanto e come questo si rifletta sui meccanismi pensionistici, che ormai genereranno, per questi giovani, solo argent de poche.

Una spirale della morte: i ragazzi non possono mettere su famiglia, le nascite calano, la crisi fiscale dello stato, proprio per questo, aumenta, le pensioni divengono un  ridicolo extra.

 E come fa un Paese a sopravvivere in questo modo? Quanto ci sarà possibile tenere in piedi ancora un sistema produttivo evoluto,  se le università calano del 20% di iscritti nell’ultimo decennio e i tecnici, i “savants”, come li chiamava Saint Simon, se ne vanno via?

 Buio a mezzogiorno per l’Italia, come quando morì Nostro Signore Gesù Cristo.

 E ancora, quante sono le fabbriche fallite, spesso a causa dell’esosità barocca del Fisco, e quanti ancora tra gli imprenditori quelli che si uccidono, per evitare l’onta del fallimento, quello stesso che gira, con un altro mantello, tra i giovani che non hanno lavoro?

 E quale è la possibilità di sopravvivere che ha un Paese che si fonda su questa equazione, meno imprese, meno lavoratori, meno qualificati i lavori, meno ancora il ricambio generazionale, peraltro inevitabile?

 Abbiamo calcolato allora oltre 700 suicidi per motivi economici.

 Il 44% sono appunto di  imprenditori, il 40%  di disoccupati, il 10,3% sono dipendenti.

 Nel primo semestre di quest’anno che volge al termine, sono già 81,  e quindi siamo al +28%.

 E’ la Campania, oggi, ma prima era il Veneto, la regione più colpita da questo tristissimo fenomeno, e qui ci immaginiamo le tante questioni legate alla legalità economica.

 Ma se chi fa impresa tenta talvolta il suicidio, o lavora al limite della sopravvivenza, magari pagando gli operai e non le tasse, altrimenti non ce la fa, allora tutto ciò vuol dire una cosa sola.

 Ovvero  che i processi sociali non sono governati, non sono gestiti da una autorità efficiente, che si lasciano andare via, come “bolle” produttive, mentre dovrebbero entrare in un programma, anche pubblico, che li regoli.

 Non si abbandona, mai, lo sviluppo delle piccole imprese del mio amato  Veneto alle oscillazioni dei cicli tedeschi o austriaci e, quando ci sono disponibili le ex-repubbliche jugoslave, si fa concorrenza, si organizzano nuovi mercati, si migliorano le tecnologie.

 Non si lascia andar via la tecnologia e l’artigianato verso il Nord Europa, per poi vedersi copiare i modelli e a prezzo più basso.

 Il lavoro va protetto, certo in modo nuovo rispetto alle vecchie barriere tariffarie, ma non si può certo credere che un meccanismo così delicato si possa lasciare nelle mani dei piccoli imprenditori o delle loro minuscole banche.

 Hanno detto che la Prima Repubblica era affetta da “gigantismo produttivo”, ma qui siamo, nell’incompetente seconda, nella fase del nanismo ossessivo, e talvolta mentale.

 Le nostre grandi imprese, oggi, quelle poche che rimangono, sono proprio quelle che sono nate come piccole e minime nella fase della Prima Repubblica e che noi, attenti alle leggi internazionali ma soprattutto all’interesse nazionale, abbiamo protetto, coccolato, talvolta salvato e spesso finanziato.

 Non c’è economia senza progettualità nazionale, soprattutto oggi che i sistemi produttivi concorrono tutti, nel mondo, e in simultanea.

 Se guardo infatti alla politica industriale dei più recenti governi italiani, c’è da rimanere senza parole.

 La crisi uccide sempre le più piccole imprese e l’Italia è un Paese che strutturalmente non protegge le sue PMI.

 Il governo Renzi non ha peraltro  salvato una sola Piccola impresa, e non ha generato alcuna politica per produrne altre.

 Poche agevolazioni fiscali e nessuna semplificazione burocratica per le 5332 nuove piccole imprese tecnologiche nate tra il 2013 e il 2015, mentre le imprese tradizionali, nello stesso arco di tempo sono state iscritte, da “nuove”, in numero di 1.127.167,  di cui solo il 51% sono vere e proprie imprese, ma solo il 4% si forma per sviluppare una idea innovativa.

 Ecco quindi la nuova fallimentare equazione geopolitica della nostra attualità italiana: poche imprese, che pure ancora diminuiscono di numero, tra di esse sono pochissime quelle che fanno innovazione, cade la domanda interna e cade anche il totale della forza-lavoro, mentre si deteriora il tessuto economico e demografico dell’Italia.

 E ancora, un Paese eterodiretto, senza memoria né cultura propria, costretto come una qualsiasi repubblichetta sudamericana a rincorrere le mode e i diktat di quelli che stanno vincendo la continua guerra, giornaliera, che è il terzo conflitto mondiale.

 Una classe dirigente e politica ridicola che regala le maglie dei calciatori ai leader mondiali, fa le fusa, applaude a chi la deride, si finge quello che non è più, un grande Paese industriale, la nostra vecchia Prima Manifattura Mondiale.

 Una cultura politica inesistente, mentre è proprio la politica una sorta di cultura al quadrato, mente le scuole divengono centri di indottrinamento per le mode e i miti più sciocchi.

 Un Paese che non sa che le vecchie alleanze sono morte, e bisogna cercarne di nuove, ad Est, in Cina, nella nuova collana di Perle della “Via della Seta” cinese di Xi Jinping, o nella società delle nuove tecnologie come ha fatto Israele.

 Come diceva acutamente Leo Longanesi, “il moderno invecchia, il vecchio torna di moda”.

Giancarlo Elia Valori