Gli incidenti navali nel Golfo Persico

La Quinta Flotta Usa, che è di stanza a Manama, in Bahrein, ha ricevuto due diverse segnalazioni di pericolo, una alle 6.012 e l’altra alle 7.00, ma sempre il 13 giugno scorso, da due navi operanti nel Golfo di Oman.
La prima nave, di proprietà giapponese e battente bandiera panamense, si chiama Kokuka Courageous, oltre alla nave, di proprietà norvegese ma battente bandiera delle isole Marshall, denominata Frant Altair.
Entrambe trasportavano beni, soprattutto petroliferi, verso l’Asia e, molto probabilmente, anche verso il Giappone, la Kokuka Courageous disponeva poi di 21 marinai ed era diretta primariamente a Singapore, mentre la Front Altair, con 23 marinai a bordo, era diretta, alla fine della sua rotta, a Taiwan.
L’attacco si è subito evidenziato con la evacuazione completa del personale e una forte esplosione, con successivi fuochi a bordo.
Nessun operatore della Front Altair è stato ferito, ma solo un marinaio della Kokuka, invece, ha subito non mortali danni fisici.
Probabilmente, si tratta di una esplosione derivante da una mina subacquea o anche da un vettore di superficie.
I due navigli colpiti, comunque, si trovavano entrambi a 32 chilometri, ovvero 20 miglia marine, dal porto iraniano di Jask, una base militare che è stata progettata, come dicono i decisori di Teheran, proprio per controllare il fianco Est degli Stretti di Hormuz.
Precedentemente, aveva avuto luogo un altro incidente navale, il 12 maggio u.s., vicino al porto di Fujairah, negli Emirati Arabi Uniti, con le autorità locali dell’Emiro che hanno subito attribuito l’incidente ad una qualche “entità statuale”, senza esplicitare ulteriormente la natura dell’”entità”.
Gli Usa, dopo la loro uscita dall’accordo sul nucleare iraniano del 14 luglio 2015 a Vienna, hanno poi indicato i Pasdaran, ovvero le Guardie Rivoluzionarie Islamiche, come una FTO, Foreign Terrorist Organization, l’otto aprile 2019, oltre a 39 società commerciali legate alla Gulf Petrochemical Industries Company, una organizzazione legata ai Pasdaran.
Si noti inoltre che gli Usa hanno identificato, nel 2012, il generale dei Pasdaran Gholamreza Baghbani come responsabile del traffico di droga dall’Afghanistan all’Iran e oltre.
Washington ritiene, inoltre, che la GPIC, la Gulf Petrochemical Industries Company, produca, oggi, il 40% di tutto il petrochimico iraniano e ben il 50% di tutte le esportazioni di Teheran.
Ovviamente, non ci sono prove evidenti del ruolo della Repubblica Islamica dell’Iran nelle operazioni di attacco marittimo alle navi commerciali, mentre gli Houthy yemeniti attaccano sistematicamente, con artiglieria e missili, sia il territorio che le reti militari e civili dell’Arabia Saudita.
Certo è che Teheran non può permettersi una vera e propria guerra, negli Stretti, né con gli Usa o nemmeno un alleato minore degli Usa, un conflitto dal quale uscirebbe economicamente e militarmente distrutta.
Ecco quindi la razionalità strategica della “guerra ibrida” degli Houthy contro Riyadh e contro, soprattutto, le reti di distribuzione petrolifera degli Al-Saud.
Ovvio anche che, se gli operatori di questi attacchi rimarranno coperti, tali attacchi non potranno che continuare. Ed espandersi.
La destabilizzazione lenta dell’area sarà quindi inevitabile, soprattutto da parte dell’Iran, che vede la guerriglia Houthy come unico strumento possibile di delimitazione della espansione economica e militare saudita.
Circa il 40% di tutto il petrolio che viene trasportato via mare passa, infatti, dagli Stretti di Hormuz, quindi l’insicurezza costante della linea di Hormuz comporterà un aumento notevole del costo del trasporto, e quindi del relativo costo del barile; e l’impiego di navi militari, almeno da parte dei Paesi più interessati alla libertà navale della zona e al mantenimento del “passaggio innocente”.
Un limite economico e militare che pochi possono sostenere per poco tempo, pochissimi per un tempo medio.
Dopo, è intuitivo, ci sarà l’accensione di altri fuochi sciiti e iraniani oltre l’area del Bab El-Mandeb, magari verso le coste mediterranee orientali o quelle siriane.
E’ bene poi notare che, prima di tutte le quattro navi colpite nel tempo fuori da Fujairah, non vi è stata alcuna segnalazione da parte di una qualsiasi agenzia di intelligence o di una qualche Forza Armata presente nell’area.
Pur trattandosi, peraltro, di operazioni che, inevitabilmente, lasciano sul terreno molti segnali, ma nessuno li aveva letti o percepiti.
Vi sono stati, successivamente agli attacchi, alcune indicazioni riguardanti l’attivazione, da parte dell’Iran, di alcune milizie sciite per attaccare alcune postazioni militari Usa sul confine sirio-iraqeno, ma assolutamente niente, per quel che riguarda gli Stretti di Hormuz.
Dal che si deduce una rete Elint iraniana o filo-iraniana che è molto evoluta; e capace inoltre di deviare e mascherare i propri segnali.
E, inoltre, che l’intelligence iraniana o vicina ad essa ha la capacità, anche dal punto di vista Humint, ovvero Human Intelligence, di coprire molto bene e a lungo le proprie operazioni e obiettivi.
Poi, sul piano tecnico, vi è la evidente capacità, mostrata sempre dall’Iran, di far detonare le cariche in un ordine preciso e solo al momento più utile; anche qui senza che i sensori e gli operatori avversari se ne accorgano, il che è segno di altissima specializzazione.
La stessa professionalità militare, questa, che abbiamo visto con l’attacco missilistico all’Ambasciata Usa di Baghdad, il 19 maggio 2019, quando alcuni missili katyusha sono scoppiati vicino all’edificio, ma senza danneggiarlo.
E, ancora, è accaduto lo stesso con i missili iraniani diretti verso il Monte Hermon, il primo giugno 2019, che non hanno colpito le postazioni militari di Israele, ma hanno dimostrato una notevole precisione di tiro.
Quindi, abbiamo avuto, in rapida successione, l’attacco alle navi al largo di Fujairah, poi una operazione contro le pipelines saudite, che sono state riparate rapidamente poi, infine, l’operazione contro la Kokuka Courageous e l’altra nave.
Nel caso della nave giapponese, sono stati poi notati, dopo l’attacco, dei militari iraniani in nave che toglievano le mine inesplose alle fiancate ma, soprattutto, tutti i testimoni sulle navi hanno tutti riportato che l’attacco era stato portato loro da “oggetti volanti”.
Ma gli scoppi sulle paratie sono stati tali, in tutti gli incidenti fino a oggi verificatisi, che l’arma non può non essere stata apposta o da dei mini-sottomarini, o da efficaci sabotatori o ancora da piccole navi veloci.
Il tutto, lo ripetiamo, senza che il naviglio Usa, britannico, francese o di altri Paesi abbia potuto identificare in tempo le operazioni. Né le reti di segnalazione o intelligence locale.
Nessuna delle armi utilizzate, con ogni probabilità, dagli iraniani, ha poi mancato il bersaglio.
Fino ad ora, nessuna fonte di intelligence aveva peraltro notato che Teheran dispone di armi capaci di colpire con un margine di errore di 1 metro-1,5 al massimo.
Ciò è accaduto quando gli Houthy, il 12 giugno u.s., hanno lanciato il nuovo missile iraniano Soumar sull’aeroporto saudita di Abha, dove il vettore di Teheran ha colpito direttamente, e distrutto, la torre di controllo.
Ovvio che il primo timore di Israele sia che il Soumar vada a finire nell’armamento standard di Hezb’ollah, proprio al confine tra lo stato ebraico e il Libano.
Il Soumar, comunque, dovrebbe derivare dal missile da crociera russo Kh-55, visto che molti di essi sono stati venduti, illegalmente, dall’Ucraina all’Iran, nel 2005.
Ha un raggio di azione di 2000-3000 chilometri.
Sul piano strategico, poi, è quasi impossibile by-passare il Golfo Persico.
Solo l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno, infatti, delle pipelines che possono trasportare il petrolio fuori dal Golfo Persico e dispongono anche di reti terrestri addizionali, tali da evitare il passaggio negli Stretti di Hormuz.
I punti strategici che vengono controllati dal triangolo Persico-Hormuz-Yemen sono quindi: lo stretto di Bab-el-Mandeb, più accessibile agli attacchi di Hormuz, Hormuz e lo stretto di Suez.
Già nel luglio 2018 l’Arabia Saudita aveva dichiarato la sospensione temporanea del proprio trasporto petrolifero da Bab El Mandeb, ma con due alternative possibili: il passaggio del greggio attraverso la East-West Pipeline, la “Petroline”, quella che collega i giacimenti della regione orientale al terminal di Yambu sul Mar Rosso, oppure il petrolio saudita può anche circumnavigare l’Africa per arrivare all’Europa e agli Stati Uniti.
La questione della sicurezza petrolifera non riguarda solo i sauditi, allora: da Bab-El Mandeb passa ben l’8%-10% del totale delle forniture mondiali di petrolio, ovvero quasi cinque milioni di barili/giorno.
Da Hormuz ne passa anche il 30%, peraltro.
Quindi, sia Bab-El Mandeb che Hormuz sono già interdipendenti sul piano strategico e militare e, quindi, si è creato, in quel nesso tra Mar Rosso, Suez, Mar Mediterraneo e Oceano Indiano, un unico arco di crisi.
Per i sauditi, poi, il vero problema non è nemmeno il petrolio, ma la salvezza delle infrastrutture marittime e commerciali.
Da Bab-El Mandeb passa non solo il petrolio saudita, ma anche tutto lo sviluppo infrastrutturale del Regno degli Al Saud.
Senza libertà di passaggio a Bab El-Mandeb, nessuna diversificazione economica, quindi, secondo il piano Vision 2030, di Riyadh.
Inoltre, per aggirare Hormuz, i sauditi stanno investendo nella costa occidentale, da Jizan, proprio al confine con gli Houthy, fino a Duba, a ridosso del Sinai egiziano.
Per non parlare di NEOM, la città del futuro tra Aqaba e il Mar Rosso, dal costo previsto di 500 miliardi di usd.
Oppure il Red Sea Project, di natura soprattutto turistica, o anche la King Abdullah Economic City, sempre sul Mar Rosso.
Insomma, nell’arco di crisi, enucleato dagli Houthy, vi è il futuro della differenziazione economica, vitale, per l’Arabia Saudita.
Anche gli Emirati Arabi Uniti hanno interesse a bloccare definitivamente le operazioni degli Houthy.
Solo l’emirato di Fujairah è infatti oltre lo stretto, guarda caso, ma tutta la politica commerciale e militare degli Emirati va direttamente verso l’Oceano Indiano, tra il sud dello Yemen (Aden, l’isola di Socotra, Mukalla) o il Corno d’Africa con Assab e Berbera, per non parlare di tutti i piccoli porti che sono già oggetto di investimenti cinesi con la Belt and Road.
Perché, però, malgrado i ripetuti attacchi, che durano almeno dal 2017, i sauditi hanno solo ora cessato di utilizzare il Bab El-Mandeb?
Una ipotesi primaria è che Riyadh cerchi di internazionalizzare tutta la questione della sicurezza dei porti petroliferi, in modo da raccogliere il sostegno non solo degli Usa ma anche di altri attori globali e regionali.
La Federazione Russa, forse?
Mosca non è molto interessata all’area di Bab El-Mandeb per il trasporto dei propri idrocarburi, ma può essere attenta al futuro dei prezzi del barile, che dipendono anche dalla sicurezza degli choke-points mediorientali.
Quindi, è ugualmente molto credibile che l’intelligence statunitense abbia avuto, e molto recentemente, la notizia che le Guardie Rivoluzionarie dell’Iran hanno già completato il progetto di un attacco in forze contro alcune reti petrolifere saudite.
Il 17 giugno u.s. la Casa Bianca ha già riunito i responsabili del Servizio e delle FF.AA. Usa per organizzare una risposta militare e operativa a questa minaccia.
Sul piano operativo, Washington ha già mobilitato 6000 uomini per la sicurezza del passaggio commerciale nell’area del Golfo, con il contorno inevitabile di cacciatorpediniere, lanciatori Patriot, sostegno aereo.
In linea di massima, per ora sono stati autorizzati dalla Presidenza Usa circa 1000 uomini in più, ma oggi si tratta soprattutto di una base petrolifera a terra, non di un passaggio di navi saudite dal Bab- El Mandeb e oltre.
Ecco, il nesso strategico è, oggi, questo.
Ma non bisogna nemmeno dimenticare nemmeno l’asse tra Saleh, già presidente yemenita, gli Houthy, l’Iran e la sovversione anti-sunnita nella penisola arabica.