I minorenni in comunità. Perché i minori finiscono nelle case famiglia? Dati e storie in uno sguardo sociale per capire e comprendere (III parte)

C’è una popolazione, fatta di persone che si traducono in numeri per gli operatori del settore e in cifre per i comuni responsabili dei pagamenti delle rette giornaliere dei minori e talvolta delle loro madri che vivono in comunità e strutture sociali. Una popolazione parallela alla società, forse dimenticata o nel quale si pone poca attenzione. I numeri, che statisticamente vengono chiamati dati, di minori ospitati in comunità, sono in continuo aumento, e i tempi di permanenza si allungano al cospetto del passato, perché le problematiche sono alquanto complesse. Ponendo l’attenzione al profilo dell’età dei bambini e ragazzi accolti in comunità si nota una netta prevalenza della classe d’età 6-10 anni, non mancano anche minorenni collocati in comunità sia nella fascia d’età inferiore ai sei anni e nella fascia d’età 4-6 anni, ospiti anche ragazzi in fase tardo adolescenziale e neo maggiorenni, quest’ultimi in netto aumento contrariamente al passato.

Un dato che emerge è anche il collocamento unitamente ai minori delle loro madri, che risultano essere nei due comuni tredici, riscontrando un’incidenza nella fascia d’età dai 20 ai 40 anni. 

Riguardo al genere dei minori ospiti delle comunità, si nota una parità tra quelli di sesso maschile e quelli di sesso femminile, seppur -prima delle fuoriuscite- quelli di sesso maschile erano in netta prevalenza. 

Un dato emergente nella fase infantile – adolescenziale degli ospiti delle comunità, si individua un’alta incidenza della presenza di minori affetti da problematiche di salute, in particolare basso QI, problematiche legate al linguaggio nonché psicomotricità, per il quale gli è stata riconosciuta un’invalidità civile e/o indennità di frequenza, con valutazione Neuropsichiatrica Infantile e relativo piano terapeutico, con accesso a centri di riabilitazione. 

Le visite specialistiche e di approfondimento a cui sono stati sottoposti all’indomani del loro ingresso in comunità hanno evidenziato anche patologie più o meno gravi, come la scabbia, problematiche ormonali con relativi percorsi diagnostici e terapeutici che ad oggi seguono. 

Se guardiamo al tempo di permanenza dei minorenni in comunità, possiamo rilevare che, ai sensi dell’articolo 4, comma 4 della legge n. 184/1983, il provvedimento che dispone l’affidamento familiare deve indicarne il periodo di presumibile durata, che non può protrarsi oltre i ventiquattro mesi. Tuttavia, una volta decorso il periodo massimo, qualora la sospensione dell’affidamento rechi pregiudizio al minorenne, il tribunale per i minorenni può disporne la proroga: il comma 7 dell’articolo 4 prevede che tali disposizioni si applichino, in quanto compatibili, “anche nel caso di minori inseriti presso una comunità di tipo familiare o un istituto di assistenza pubblico o privato.” 

Analizzando i dati, la permanenza media è all’incirca di due anni, seppur in alcuni casi si riscontra una leggera percentuale di minori ospite della comunità da più di ventiquattro mesi, proroghe resesi necessarie in quanto la sospensione del collocamento rischierebbe di recare pregiudizio al minore. Il prolungato periodo di permanenza presso le strutture è sintomatico dell’esistenza di nuclei familiari in condizioni di gravi e persistenti difficoltà e, al contempo, dell’insuccesso, totale o parziale, degli interventi disposti al fine di far cessare la condizione di problematicità e permettere il ricongiungimento del nucleo familiare o disporre un affido intra o extra familiare. 

L’origine dell’inserimento di bambini e ragazzi nelle comunità avviene, nella maggior parte dei casi, a seguito di un provvedimento dell’autorità giudiziaria. Tuttavia, dai dati si assiste a un maggior numero di inserimenti ai sensi dell’ex articolo 403 codice civile disposti dall’assistente sociale, rappresentando un intervento emergenziale, richiedendo un allontanamento d’urgenza, intervento di natura provvisoria che presuppone la successiva ratifica da parte dell’autorità giudiziaria minorile. 

Le caratteristiche specifiche di questi ragazzi e che cosa porta al loro allontanamento da casa, si nota una tendenza concorde che i principali problemi familiari sono legati alla violenza domestica e/o di genere e all’abuso e maltrattamento in ogni sua forma da parte dei genitori. 

Incrociando i dati delle fasce d’età dei minori con le ragioni dell’allontanamento, si rileva che, ad esempio, per la fascia di età infantile, tra le principali motivazioni del loro collocamento, vi sono la violenza familiare e disgregazione della famiglia, nonché una trascuratezza generale del minore. Incidono tra i motivi concomitanti, la povertà economica, l’incuria genitoriale in senso lato, e problematiche di salute del genitore, si riscontra infatti, un notevole numero di genitori affetti da patologie psichiatriche nonché da deficit cognitivo, oltre che genitori affetti da problemi di tossicodipendenza o abuso da sostanze alcoliche. Per gli adolescenti, invece, la ragione che incide maggiormente è quella dei problemi comportamentali del minore, seguita dai problemi relazionali con la famiglia di origine. L’impressione è che si assista ad una sempre più difficile gestione dei minori “difficili” da parte della famiglia che terminata la fase della fanciullezza, non riesce più a contenere il minore, che in genere va anche male a scuola ma diventa difficile stabilire quali sono le cause e quali gli effetti, e quindi chiede aiuto alle strutture residenziali, in genere tramite i Servizi Sociali, spesso bypassandoli, presentando querela contro il minore presso i Carabinieri; con l’avanzare dell’età del minore la famiglia sembra diventare addirittura impotente, o comunque cresce l’iniziativa dei Servizi e soprattutto, del Tribunale per i minorenni. 

Incrociando, ancora i dati, si nota che alcuni minori accolti hanno subito una mobilità, ovvero un cambio di struttura, sia perché inizialmente collocati unitamente alla loro madre in comunità madre/bambino, le quali volontariamente hanno optato per una loro fuoriuscita, mentre le disposizioni del Tribunale per i minorenni stabilivano per la prole una prosecuzione del percorso comunitario, pertanto, si è reso necessario un cambio di struttura. Il cambio del contesto di accoglienza, dai dati a disposizione, è avvenuto anche per alcune donne con i loro bambini, in quanto le prime osservazioni nonché le riflessioni di equipe tra il SST e gli operatori di comunità hanno fatto emergere problematiche legate alla genitorialità, nonché fragilità emotive, psichiche e sociali, che hanno richiesto un contesto comunitario differente. Il mutamento del contesto comunitario, senza dubbio, incide fortemente su un bambino già traumatizzato dagli accaduti e a rischio psicologico-sociale, con alle spalle una famiglia disgregata; spesso, poi, è un bambino solo. 

A questo, si aggiungono le problematiche psico-patologiche di questi bambini, con difficoltà intellettive, del linguaggio, disregolazione emotiva, circostanze che richiedono approfondimenti diagnostici, seguiti poi da terapie sia presso i centri riabilitativi, che un sostegno psicoterapico, utile anche alla rielaborazione dei propri vissuti. 

Quanto alle mamme collocate per loro sono previsti percorsi individuali volti alla riaffermazione di sé, fortemente minato dalla violenza subita, nonché approcci terapeutici mirati, al fine di compensare farmacologicamente o mediante supporto psicologico l’aspetto psichico, altro aspetto sul quale si lavora è l’area del maternage, con sostegno alla genitorialità e colloqui psico-educativi al fine di supportarle nel ruolo genitoriale, che in alcune circostanze è carente e non in grado di rispondere idoneamente ai bisogni di cura e d’affetto della prole. Accanto ad una progettazione psico-educativa e sociale, c’è anche quella che riguarda la sfera lavorativa ed economica, al fine di renderle autonome finanziariamente e prevedere un loro reinserimento sociale volto all’autonomia nel senso più ampio possibile. 

Un dato allarmante riguarda la quota di minori che al termine del percorso comunitario non rientra in famiglia perché sono state accertate le violenze impartite o le problematiche familiari non sono rientrate, spesso per una poca predisposizione ai percorsi prescritti dall’autorità giudiziaria, denotando anche una mancanza di consapevolezza verso la situazione da parte del genitore, ciò determina anche una mancanza di motivazione ai percorsi previsti. 

La quota più consistente dei dati relativi alle fuoriuscite è senz’altro quella di minori che concludono il loro percorso comunitario con un affidamento familiare, si tratta di affidi extra familiari, in quanto spesso nella famiglia d’origine non si rilevano disponibilità o figure adulte idonee alla gestione dei bambini. Di recente, si assiste anche a decreti che prevedono l’adottabilità dei minori in comunità. 

Se vi state chiedendo riflessioni e prospettive per il futuro, vi rimandiamo alla prossima pubblicazione in tema.