Il Banco di Ventriglia e la riconoscenza dei napoletani

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È passato quasi un quarto di secolo dalle vicende che portarono al fallimento del vecchio e glorioso Banco di Napoli e solo adesso si comincia a scrivere (qualcuno lo pensava anche prima) che forse si è trattato di scippo con destrezza ai danni del Mezzogiorno e non di salvataggio come è stato fatto credere ai più da una campagna di stampa non si sa quanto alimentata dall’ignoranza o dalla malafede.

È stato così forte e martellante il messaggio di una cattiva gestione alla base delle difficoltà della prima azienda di credito del Sud – la sesta in Italia con progetti di scalata nella classifica magari incorporando il Monte Paschi di Siena (e chissà che non si sarebbe rivelata una buona idea) – che sul timoniere dell’ultimo periodo, riverito quand’era in sella come l’ultimo dei vice re, è caduto l’oblio.

libroMorto di una brutta malattia l’11 dicembre del 1994, Ferdinando Ventriglia era stato spossessato del comando da una congiura di palazzo proprio mentre era impegnato a creare le condizioni per un rafforzamento dell’istituto che scontava la fine prematura e improvvisa dell’intervento straordinario per volontà di un ceto politico paralizzato dalla paura per l’incalzare della cosiddetta inchiesta di Mani Pulite.

Il problema, conosciuto e condiviso da un’intera comunità industriale che aveva tratto beneficio dalle anticipazioni ricevute, era come parare i colpi dei mancati rientri dovuti all’interruzione delle erogazioni da parte di quello che restava della Cassa. Fu un comportamento vile e sleale del governo dell’epoca a mettere in difficoltà il Banco e chi lo aveva guidato nell’interesse dell’economia meridionale.

Armati del più nobile tra i sentimenti che chi riceve una cortesia è in grado di esprimere, l’irriconoscenza, approfittando della debolezza del vecchio banchiere e fiutando il vento che cambiava direzione grazie anche all’affermarsi della Lega, i furbissimi e accortissimi cortigiani furono lesti a gettare la croce su chi per lungo tempo li aveva diretti, nutriti, resi degni di considerazione.

Il Banco fu perso perché i napoletani lo vollero perdere applaudendo al folle disegno, andato a buon fine per mancanza di contrasto, di svenderlo per 30 denari – 61 miliardi di lire, 30 milioni di euro – all’accoppiata Ina-Bnl che si riempirono le tasche e si salvarono lucrando sul vertiginoso aumento di valore riconosciuto pochi mesi più tardi dal nuovo acquirente Sanpaolo di Torino che pagò il giusto prezzo.

Uno dei più fermi sostenitori e attori della distruzione dell’istituto partenopeo a vantaggio di altri e ben individuati soggetti del panorama creditizio e assicurativo nazionale fu l’allora ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi divenuto per ironia della sorte, una volta eletto Capo dello Stato, cittadino onorario di quella Napoli che aveva contribuito con tanta perseveranza a spogliare.

Furono pochi, davvero pochi, e muniti di armi spuntate di fronte alle corazze e alle lance dei sempre vincitori per la rapidità di passaggio da un campo all’altro, i resistenti che cercarono di mettere in guardia la cittadinanza dal sacco incombente invitandola a difendere l’istituzione che dopo cinquecento anni rischiava, come poi è accaduto, di scomparire con dolo. Furono zittiti come oscurantisti e collaborazionisti.

Evviva il nuovo corso.