Il Bisogno di una politica che guardi lontano e rappresenti anche giovani e nascituri

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in foto Elsa Fornero

L’Italia è prima tra i paesi OCSE per spesa pensionistica in rapporto al PIL, con il doppio della media. L’Italia è anche il paese che macina record negativi in fatto di nascite. Nel 2017 sono nati 458.151 bambini, il livello più basso dall’Unità d’Italia nel 1861, e prosegue la tendenza alla discesa delle nascite iniziata dieci anni fa. Secondo le stime Istat, nel 2040 per ogni under 19 ci saranno due ultra-sessantacinquenni e per ogni due individui potenzialmente attivi ci sarà un ultra-sessantacinquenne.

In questo tipo di paese, nel 2011, grazie alla riforma che porta il nome della professoressa ed ex Ministro Elsa Fornero, si è deciso per una volta di investire sul futuro allungando i tempi necessari per andare in pensione. In sostanza, la riforma ha introdotto questi cambiamenti: estensione del metodo contributivo, aumento di un anno dell’età per la pensione anticipata, aumento dell’età per la pensione di vecchiaia oltre all’adeguamento non più triennale ma biennale dell’aspettativa di vita, a partire dal 2019. Era presente anche il “contributo di solidarietà” per cercare di correggere i maggiori privilegi del passato, poi cassato dalla Corte Costituzionale con il voto determinante del suo presidente, che vale doppio.

L’adozione del criterio di buon senso e responsabilità secondo il quale le pensioni devono essere erogate a tutti sulla base dei contributi effettivamente versati e non sulla base dell’importo dell’ultimo stipendio è stato un passo fondamentale non solo per portare l’Italia fuori dal rischio fallimento, ma anche per riaffermare basilari principi di equità generazionale. Secondo Tito Boeri, presidente dell’INPS, abolire la riforma Fornero costerebbe circa 15 miliardi di euro l’anno e potrebbe arrivare a un costo complessivo sulle finanze pubbliche di 85-100 miliardi nel giro di pochi anni. “Chi ha paura delle riforme. Illusioni, luoghi comuni e verità sulle pensioni” è l’ultimo libro scritto da Elsa Fornero, docente di Economia politica presso l’Università di Torino, a cui rivolgiamo alcune domande.

L’ampliamento dei benefici pensionistici genera privilegi tra le generazioni o è una scelta ispirata a un criterio di equità? Cosa sta accadendo in Italia?
Quello che sta accadendo, sostanzialmente con una parziale controriforma rispetto alla nostra riforma, è che si vuole di nuovo dare un vantaggio alle generazioni meno giovani (quelle più vicine al pensionamento) attuando una redistribuzione a debito ovvero mettendo i costi della misura a carico delle generazioni future. La nostra riforma poteva essere interpretata (so che può essere una interpretazione non facile) come tentativo di riequilibrare a favore dei giovani i rapporti economici tra generazioni mentre con questa parziale controriforma si squilibrano di nuovo, a favore delle generazioni più numerose e anche più attive in politica, che sono quelle anziane.

Noi avremmo bisogno di una politica che guardi lontano, e che rappresenti anche gli interessi di chi oggi è bambino, oppure che non è ancora nato. Purtroppo i ritmi della politica sono molto più intensi e ravvicinati, quindi si tende a guardare sempre alle prossime elezioni. Le elezioni a vari livelli si moltiplicano, e c’è ne è sempre una vicina, rispetto alla quale chi sta al governo cerca di “farsi bello”, dando quindi più vantaggi dove crede di avere più serbatoio di voti. Politicamente è comprensibile, ma dal punto di vista del senso dello Stato fa un po’ specie che non ci siano statisti in grado di alzare lo sguardo e di slegarsi un poco dai calcoli elettoralistici di breve periodo: i grandi statisti sono quelli che guardano lontano; i politicanti pensano a rafforzare il consenso di cui godono nel breve termine.

Leggendo i dati Istat, notiamo un forte calo della produzione industriale a luglio (-1,8% rispetto a giugno e -1,3% rispetto a luglio 2017). Occorrono quindi riforme per migliorare la nostra competitività e produttività: come spiegarlo ai cittadini italiani? Quali sono le principali cose da fare nei prossimi 5 anni?
I dati citati fanno riferimento al rallentamento dell’economia che non caratterizza solo l’Italia ma purtroppo anche l’Europa e l’economia mondiale. Questo rallentamento generalizzato implica, per un paese come il nostro, integrato ed esportatore, il rischio di perdere esportazioni – cioè prodotti che le nostre imprese riescono, con successo e grazie alla capacità manufatturiera del nostro paese, a esportare – e conseguentemente entrate che servono a pagare le importazioni di cui abbiamo necessità. Il rallentamento preoccupa, perché significa poter fare conto su minori risorse.

La scarsa dinamica della produttività che ha contraddistinto l’economia italiana degli ultimi due decenni è un dato molto preoccupante, perché è un indicatore strutturale di debolezza: noi abbiamo perso posizioni in settori di punta caratterizzati da innovazione elevata e capitale umano molto qualificato (quindi ad alta produttività) e abbiamo cercato di rifarci sui settori più tradizionali che però sono quelli a produttività più bassa. Il mix quindi conta e non gioca a nostro favore. Pesa inoltre il fatto che noi in questi ultimi anni abbiamo investito troppo poco in capitale produttivo ed infrastrutture. Ciò è documentato amaramente da episodi tragici come quello di Genova, ma anche da un crescendo di attenzione su tutta la rete di viabilità, una situazione allarmante che testimonia di come il Paese abbia destinato risorse insufficienti persino alla manutenzione.

L’altro capitolo lacunoso sempre degli investimenti è quello in istruzione, ricerca e sviluppo. Queste sono gli elementi determinanti per la crescita di medio-lungo periodo. Purtroppo la nostra storia non solo recente dimostra che la politica trova sempre qualche buona ragione per spendere sulla parte corrente, di breve periodo, e per trasferimenti, ossia per ridestinare ciò che il paese produce, piuttosto che per aumentare il reddito e l’occupazione. Anche il nuovo documento di bilancio approvato dal consiglio dei ministri mostra chiaramente, a dispetto del nome pomposo che l’esecutivo si è dato come “Governo del Cambiamento”, di ispirarsi a quello che è stato fatto nel passato, come i condoni e la mancanza di spesa in investimenti.

Le cose importanti da fare sono quindi cercare di ridurre la spesa corrente e investire in infrastrutture e scuola, a partire dagli asili nido, scuole dell’infanzia ed elementari, anche per favorire il lavoro delle donne, anziché mortificarlo. È importante continuare inoltre nel programma di digitalizzazione dell’economia, di industria 4.0 e anche nel tentativo un po’ arenatosi di un maggiore decentramento della contrattazione, dove il dialogo diretto tra lavoratori e datori di lavoro può favorire il merito è la produttività. C’è bisogno di una modernizzazione nei rapporti tra le parti sociali perché questo è un altro dei fattori che alimentano la produttività. È poi necessario ridurre il divario tra mondo del lavoro e scuola: quando ero Ministro lavorai molto per l’apprendistato, reinterpretato in chiave moderna, perché può sempre offrire opportunità preziose ai giovani e favorire la loro occupazione.

In questi giorni il dibattito pubblico sui temi previdenziali è focalizzato sulla cosiddetta “Quota100”, che costerebbe fino a 13 miliardi in più solo per il 2019. Soldi che si aggiungerebbero agli oltre 200 miliardi che l’Italia già spende ogni anno in pensioni. Come si spiega l’ennesima tassa sui giovani e sul futuro? Ricordiamo che l’età di pensione effettiva in Italia è intorno ai 62 anni: già oggi tra le più basse d’Europa.
Innanzitutto vorrei esprimere comprensione per l’aspirazione al pensionamento di persone che sono stanche del loro lavoro (magari molto faticoso) e che hanno problemi familiari. Penso che, al di là dei tempi molto stretti e della situazione emergenziale in cui la nostra riforma fu adottata, andare incontro alle esigenze di queste persone, a distanza di anni ed anche in una situazione un po’ migliorata, non essendo più l’Italia nell’occhio del ciclone, sia corretto. È ciò che il governo Gentiloni aveva iniziato a fare con la cosiddetta “APE social”, ovvero identificando categorie meritevoli di andare in pensione più presto mettendone il costo a carico della collettività. L’onestà intellettuale avrebbe richiesto una verifica e magari un rafforzamento della strada già imboccata.

L’idea invece di tornare agli slogan, con quota 100 (somma tra età e anzianità contributiva) assurta a obiettivo in sé, significa riportare il dibattito sul sistema pensionistico indietro di almeno 15-20 anni, ossia a un tempo in cui il pensionamento veniva considerato un diritto, senza che ci si potesse chiedere chi ne avrebbe pagato il conto. Ciò significa non soltanto trascurare i vincoli finanziari, ma soprattutto l’equilibrio tra generazioni. Questa controriforma è fatta a debito – con cifre considerevoli che vanno crescendo negli anni – ed è un aumento strutturale a cui non fa da contrappunto un aumento delle entrate. Mentre io capisco bene l’esigenza di trovare una modalità di uscita per persone in oggettiva difficoltà, questa misura generalizzata non la comprendo. Per di più si tratta di persone che andranno in pensione con una fetta importante di assegno calcolato secondo la vecchia formula retributiva quindi con dentro un beneficio che eccede i contributi pagati. Ciò paga elettoralmente ma penalizza i giovani.

Per fare riforme che restano nel tempo, la storia insegna che ci vuole coraggio e l’ambizione di guardare al futuro, non solo al presente: “un politico guarda alle prossime elezioni. Uno statista guarda alla prossima generazione”, diceva De Gasperi. Come trovare il coraggio di costruire un paese al passo coi tempi e più equo nelle opportunità per chi verrà dopo di noi?
La qualità della classe dirigente dipende molto dalla considerazione e dalle risorse che si dedicano alla scuola. Purtroppo negli ultimi decenni l’istruzione e la formazione – anche professionale – non sono state valorizzate ma piuttosto svilite. Anche la comprensione di ciò che rappresenta un sistema previdenziale ha subito un progressivo svilimento. Possiamo considerare il sistema previdenziale una delle “istituzioni” più importanti del paese, anche perché è la parte più rilevante del sistema di welfare, ovvero quel sistema disegnato per proteggere i lavoratori – ma più in generale I cittadini – dalle conseguenze di eventi negativi. Nel caso delle pensioni l’obiettivo è cercare di fornire sicurezza economica nell’età anziana. Per ottenerla, lo stato ha messo in piedi un contratto tra generazioni. Questo contratto, però, deve essere scritto in modo che si tutelino anche le future generazioni. Anche la Costituzione guarda alla tutela delle generazioni che verranno, perciò il contratto dovrebbe avere questa dimensione di sostenibilità temporale di lungo termine.

Purtroppo questi contratti sono manipolati dalla politica per scopi elettoralistici, ovvero di consenso nel breve termine. È così che il nostro debito pubblico è cresciuto: il debito pubblico è lastricato sempre di buone intenzioni, come quando si sono introdotte le baby pensioni, o c’erano varie ragioni per mandare in pensione le persone prima del tempo ragionevole, oppure per permettere alle imprese di ristrutturarsi. Tutte queste cose sono, in linea di principio, buone intenzioni, ma quando sono realizzate a debito implicano la salvaguardia dei diritti dei padri a danno dei figli. Così finiamo per avere genitori e nonni che ricevono pensioni anticipate ben superiori ai contributi versati e ne danno una parte a figli e nipoti che faticano a trovare lavoro: questo è un aggiustamento poco efficiente.

Per fare le riforme ci vuole lungimiranza, non miopia. E occorre conoscerne le fondamenta. A proposito della necessità di fare riforme, voglio citare un nostro lavoro scientifico, scritto con una mia giovane collega della università, Anna Lo Prete [reperibile qui in PDF, ndr]. Esso prende spunto da una frase detta dall’attuale presidente della Commissione Europea, Juncker, secondo il quale noi sappiamo cosa deve essere fatto,  mentre ciò che non sappiamo è come farci rieleggere quando lo abbiamo fatto. Come dire: se tu vuoi fare le riforme, perdi le prossime elezioni. Noi abbiamo fatto una ricerca domandandoci se è vero – su 23 paesi nell’arco di 20 anni – che chi fa riforme pensionistiche importanti perde poi le elezioni successive: la risposta è tendenzialmente affermativa, la probabilità di perdere le elezioni dopo avere realizzato una riforma si abbassa notevolmente là dove la popolazione ha un grado di conoscenza economico-finanziaria di base più alto. Vuol dire che se le persone capiscono il fondamento delle riforme allora capiscono che non sono solo sacrifici immediati, ma sono fatte per migliorare il futuro e ciò rende le rende meno avverse alle stesse riforme.

La narrazione secondo la quale i prepensionamenti costituirebbero il miglior modo per creare occasioni di lavoro per i giovani è molto gettonata. Ma è anche corretta? Eppure i paesi con tassi di occupazione elevati registrano tassi di disoccupazione giovanile bassi. Come spiegare che il numero di posti di lavoro non è un dato fisso?
Intanto bisogna avere una capacità di dialogo diretto con i cittadini, e qui i governi tecnici debbono fare I conti con un loro difetto originario: non essere ancorati a partiti che rappresentano il tramite tra il governo e la cittadinanza. La mia esperienza, magari limitata, mi dice che quando dialoghi, interpreti, spieghi, con pacatezza e senza pretesa di avere la verità assoluta in tasca, le persone capiscono. Il problema è che quando il messaggio forte che viene dato è quello opposto, diventa difficile poi scalzarlo. Per esempio è diffusa la convinzione che il numero dei posti di lavoro sia fisso, per cui l’occupazione di uno avviene a spese dell’occupazione di un altro, magari un giovane o una donna. Se si crede questo, come pensa anche l’attuale governo, è difficile non essere favorevoli al pensionamento anticipato. Invece I dati mostrano in generale che non c’è un rapporto di sostituzione. Là dove le politiche del lavoro sono efficaci il tasso di occupazione di giovani non è più basso di quello degli anziani. Occorre perciò ribaltare la logica per cui si deve far posto a una persona facendone uscire un’altra. Bisogna invece trovare il modo – lavorando sulle opportunità di lavoro, investendo in formazione – di aumentare i posti di lavoro. Ciò può anche voler dire ridurre gli orari di lavoro (come storicamente è sempre avvenuto) ma deve essere un effetto della maggiore produttività, non del razionamento della quantità di lavoro, partendo per l’appunto dall’assunto errato del lavoro come quantità fissa.

 

Si può consentire ai cittadini di investire responsabilmente e liberamente nel loro futuro, costruendo il loro personale ‘vitalizio’ che poggia su risorse effettivamente accantonate e investite, restituendo così risorse all’economia produttiva? Ci sono esempi del genere nel mondo – pensiamo al Sudamerica e la riforma di Josè Pinera – a cui ispirarsi per favorire la libertà di scelta?
Nelle liberalizzazioni e privatizzazioni dei sistemi previdenziali dell’America Latina ci sono lezioni importanti da trarre: la prima è che il sistema pensionistico migliore è quello misto, in parte pubblico a ripartizione e in parte privato, basato sulla capitalizzazione finanziaria. Il mercato privato non copre tutti i rischi ed il pubblico può intervenire in una logica assicurativa e non solo assistenziale. Questa è la filosofia della più ampia e più efficiente copertura dei rischi: se sei contemporaneamente nella capitalizzazione privata e nella ripartizione pubblica, sei coperto meglio. L’America latina ci insegna che fidarsi solo del privato è eccessivamente rischioso, e anche costoso. Consentire troppa libertà di scelta, quando le persone magari non sono molto preparate, può implicare un aumento dei costi: si è scatenata in passato, in alcuni di quei paesi, una concorrenza tra diversi fondi e molte persone si sono spostate da un fondo a un altro attirate dai rendimenti e senza considerare I costi, per accorgersi a posteriori che gli oneri di trasferimento avevano cancellato buona parte degli stessi rendimenti finanziari.

Si tratta quindi di avere buon senso: nulla è perfetto e la trasparenza del sistema previdenziale è fondamentale. La compresenza di pubblico e di privato, insieme alla trasparenza, può consentire una migliore copertura dai rischi, in particolare dal rischio demografico, a costi più bassi. Il sistema pubblico, perseguendo una logica di protezione sociale e di eguaglianza delle opportunità, assolve compiti redistribuivi essenziali che il mercato trascura. Il pubblico ha un ruolo assistenziale che il privato non ha, e questo offre eguaglianza delle opportunità. Questo è un ruolo che va migliorato, ma preservato. Il settore privato può fungere da buon complemento ma occorrono risparmi adeguati ad alimentarlo. Anche sotto questo profilo, la crescita è necessaria.

@antonluca_cuoco