Il cacciatore di tarante, sud e magia nel thriller antropologico di Martin Rua

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di Fiorella Franchini

“Scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che poi venga scoperto” per Italo Calvino e Martin Rua nel suo ultimo romanzo Il cacciatore di tarante, edito da Rizzoli, cela molte storie da svelare lentamente. L’astuzia dell’autore a catturare i lettori è sorprendente; pagina dopo pagina fabbrica la sua rete, costruisce le fila della vicenda; si nasconde là, dove gli indizi sembrano condurre, d’improvviso scuote chi legge con imprevisti e il movimento delle parole, degli stati d’animo, delle ambientazioni, fino a catturarlo con mille sillogismi. Siamo nel 1870, all’alba dell’unità d’Italia, quella politica, perché l’unificazione culturale e sociale è ancora di là da venire. Ci sono tutti gli elementi della detective story: gli omicidi sono efferati, le scene del crimine dettagliatamente descritte, sia che si tratti di malfamati quartieri piemontesi che di assolate campagne del meridione. Le indagini sono affidate a un integerrimo poliziotto torinese e a un famoso medico napoletano, e poi ci sono tante tracce legate da fili sottili come quelle di una ragnatela. Giovanni Dell’Olmo, ispettore di pubblica sicurezza e il duca Carlo Caracciolo de Sangro, discendente del famoso principe di Sansevero, eccentrico esperto tossicologo e grande conoscitore di ragni, si ritrovano prima a Napoli e poi nel profondo Salento, per un’inchiesta complessa e dai risvolti inquietanti. Ad Ariadne, nei possedimenti del barone Pisanelli, in pochi mesi la taranta sembra aver calato cinque donne, tutte braccianti nei campi della masseria, provocandone la morte. Intuito investigativo e conoscenze scientifiche si confrontano con leggende, superstizioni, con la sottile intelligenza del male. Un thriller antropologico ricco di azione, con sparatorie, esplorazioni di oscure cavità, e tanto mistero. Per mezzo di un ritmo narrativo cadenzato, ora lento, ora accelerato, l’autore conduce il lettore nel mondo del tarantismo, una sindrome culturale molto diffusa nell’antico Sud e attentamente studiato dall’antropologo Ernesto De Martino negli anni ’50 del ‘900. Il fenomeno si manifestava soprattutto nei mesi estivi, durante il periodo della mietitura del grano in Puglia e sembrava causato dal morso di un ragno. Le donne erano le più colpite, manifestando sintomi di malessere generale, prostrazione, depressione, deliri, insieme a dolori addominali, muscolari o affaticamento. La “cura” tradizionale era una terapia di tipo musicale coreutico, durante la quale il malato veniva indotto in uno stato di trance nel corso di sessioni di danza frenetica, un sorta di “esorcismo musicale”. Martin Rua attraverso una scrittura colta ma non saccente, descrive abilmente le credenze e i riti mettendoli a confronto con l’oggettività della ragione e della scienza, la sacralità della fede. L’antropologia diventa narrazione appassionata e coinvolgente che scardina ogni certezza, ogni deduzione razionale. Anche la lingua, imbevuta a tratti di griko e salentino, fa riaffiorare archetipi ancestrali. Il limite tra fantasia e realtà si frantuma in emozioni, suggestioni, in domande incalzanti. Lo stesso De Martino si chiedeva per quale ragione in una terra profondamente cattolica, che ha dato i natali a grandi figure dell’Illuminismo italiano, permanessero fino a pochi decenni fa, manifestazioni irrazionali e pagane. La magia diventa parte del romanzo, come indefinibile protagonista dal nome evocativo, Malombra, e come irrinunciabile sostrato della cultura meridionale, un ordine arcano che conferisce un intimo senso alla vita. “I ragni – scriveva Primo Levi – sono una inesauribile sorgente di meraviglia, di meditazioni, di stimoli e di brividi”. Martin Rua sa sorprendere, sa generare il senso di paura, di smarrimento, e una riflessione vertiginosa. Bisogna arrivare necessariamente alla fine del racconto per scoprire, insieme all’ispettore Dell’Olmo e al duca de Sangro, la chiave del mistero che è, al tempo stesso, vittoria della ragione e consapevolezza di una realtà trascendente.