Che la Turchia, secondo quanto rivelano le fonti russe, svolga in grande stile un contrabbando di petroli provenienti dall’area del Califfato è cosa, se non certa, altamente probabile.
Le reti di Al-Baghdadi hanno sempre utilizzato le linee di trasporto vicine al confine turco, dove gli idrocarburi, spesso provenienti dalle aree curde di Kirkuk o di Sulemaianiyah, vengono commerciati da una rete di intermediari di varie origini etniche. D’altra parte, gli oleodotti principali sono fuori uso e sono, peraltro, ben noti alle aviazioni russe, siriane e della Coalizione. Alcune fonti dicono che vi siano anche delle compagnie occidentali in coda per acquistare il petrolio califfale, ma è più probabile che l’oil di quelle aree venga poi mischiato o passato di mano in modo tale da renderne irriconoscibile l’origine. In effetti, il 2 Dicembre scorso il Ministero della Difesa di Mosca, con immagini, fotografie e documenti, ha ampiamente, secondo la linea politica russa, dimostrato che vi è un “ramificato sistema di contrabbando di petrolio tra la Turchia e i territori del Daesh/Isis in Siria e Iraq. Le direttrici dello spaccio illegale di petroli sono, secondo le fonti russe, tre: la prima va dalla Siria verso i terminal turchi sul Mediterraneo, la seconda che va dai giacimenti in territorio siriano verso le raffinerie turche presenti nella città di Batman, a cento chilometri dal confine siriano, la terza che va dai territori califfali fino al terminal turco di Cizre. Il petrolio va nei camion, decine e centinaia di mezzi, fino al territorio turco dove viene smistato verso le varie raffinerie. Si tratterebbe, secondo le fonti russe, di 200.000 barili di petrolio/giorno, poco meno del totale delle estrazioni petrolifere compiute, fino allo scoppio del jihad sirio-iracheno, dal solo governo di Damasco. I raid aerei, sempre secondo i dirigenti russi, avrebbero depotenziato la produzione e il trasporto del greggio del 50%, con un guadagno netto, per il califfato, che è sceso da 3 milioni di Usd/giorno a 1,5 milioni al giorno. La Russia, secondo le fonti ufficiali di Mosca, avrebbe colpito 32 strutture di estrazione, 11 raffinerie, 23 stazioni di pompaggio e ben 1080 camion per il trasporto dei petroli.
La Turchia è quindi nel mirino, qualunque sia la verità contenuta nelle accuse di Mosca. Il problema è che Ankara è la seconda forza armata, dopo gli USA, della NATO e, certamente, negli obiettivi della Russia vi è quello di annichilire la presenza dell’Alleanza Atlantica nel Grande Medio Oriente. Vi è però un linkage, un collegamento, tra le operazioni russe contro la Turchia succedutesi all’abbattimento del Sukhoi-24 e l’allargamento della NATO proposto in queste ore. Nell’Alleanza Atlantica dovrebbero entrare il Montenegro e poi, probabilmente, la Croazia. Ovvero: Balcani chiusi all’influenza russa, e rafforzamento delle linee atlantiche in funzione di una protezione ad oltranza dell’Ucraina. Ma questa è una condizione che Mosca non accetterà mai. Quindi, se Mosca rafforza il suo legame con i curdi, già rilevante, porta acqua al mulino del Daesh/Isis, poiché si creerebbero altre masse di rifugiati che andrebbero a rafforzare il potere di ricatto, già dimostrato, della Turchia verso la debole e inetta Unione Europea, mentre gli inglesi hanno già compiuto quattro missioni di bombardamento, con i loro Tornado, sulle postazioni del Califfato. Che non sembrano soffrire molto degli attacchi dal cielo: l’Isis ha imparato la lezione di Hamas, e vive sottoterra per il tempo utile ad evitare i danni collaterali del passaggio degli aerei da combattimento. Inoltre, c’è il fondato motivo di pensare che l’espansione del Califfato in Libia possa portare il gruppo di Al Baghdadi al possesso di armi chimiche, in parte già presenti nell’arsenale dell’Isis e provenienti dai depositi siriani e iracheni, ma soprattutto proprio degli aerei da caccia a disposizione del vecchio regime gheddafiano. Peraltro, la flotta russa del Mar Nero, per controllare l’area siriana, deve passare per forza in acque controllate dai turchi.
Quindi, la Turchia diviene essenziale per la sopravvivenza della NATO nell’area mediorientale, e il prezzo che pagheranno gli altri alleati sarà inevitabilmente altissimo. E cadrà anche l’alleanza, ormai vecchia e priva di contenuti strategici, tra la Turchia e Israele, dato che ora lo Stato Ebraico coordina tutte le sue manovre aeree e militari con la Federazione Russa. Intanto, il governo turco successivo alle ultime elezioni del 1 Novembre si è formato: è un monocolore del partito del Presidente Erdogan, l’AKP. Ne fanno parte Ahmed Davutoglu, primo ministro e artefice della politica estera turca recente, con Mehmed Cavusoglu capo della diplomazia e Volkan Bozkir responsabile dei rapporti con l’UE. Cavusolglu è già stato ministro degli esteri turco dall’agosto 2014 all’agosto dell’anno successivo, è stato vicepresidente dell’Assemblea del Consiglio d’Europa, ed è noto per aver interrotto, con i suoi manutengoli, l’elezione del suo concorrente ad Antalya, il 30 Marzo 2014. Volkan Bozkir è un diplomatico di carriera, ed è il capo delegazione di Ankara per l’accesso turco alla UE. Quindi, la Turchia cerca l’appoggio dell’Unione Europea come base di partenza per il suo autonomo progetto di irraggiamento di potenza nell’Asia Centrale. Se l’UE accetterà questa linea di azione, perderà la Mesopotamia e gli accordi con la Russia, che peraltro fornisce oltre la metà del gas e del petrolio utilizzati dalla Turchia, se invece l’accessione di Ankara alla Unione Europea non vi sarà, la Turchia farà di tutto per rendere la vita difficile alla penisola eurasiatica. Una riconferma alla Giustizia con la nomina a ministro di Bekir Bozdag. Egli è un avvocato di professione, già vice primo ministro nel 2013, nelle more del grande scanndalo sulla corruzione nel governo turco. Agli Interni è andato Efkan Ala. E’ stato già minisro, proprio agli Interni, dal 2013 al giugno 2015, essendo stato prima governatore di Batman e poi di Dyarbakir dal 2004 al 2007. E’ stato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dal 2007 al 2013. E’, con ogni probabilità, l’uomo forte del regime AKP e il fer de lance contro le insorgenze curde.
Ai trasporti va Ibrahim Yldirim, che ha la funzione di espandere le grandi infrastrutture turche e soprattutto la grande linea da Pechino verso Londra, che darebbe alla Turchia uno straordinario potere di interdizione verso l’UE e la stessa Mesopotamia. Un uomo che aveva avuto a che fare con il grande scandalo del 2003, ma che la fedeltà inconcussa a Erdogan ha riportato in sella. All’economia va Mehmet Simsck, un curdo-turco già primo ministro della Repubblica Turca e dal 2009 al 2015 ministro delle Finanze. Viene anche lui da Batman, si è occupato di economia dei paesi emergenti e dell’Europa con il Medio Oriente alla Merrill Lynch a Londra, oltre ad aver lavorato per la tedesca Deutsche-Bender Securities dal 1998 al 2000, mentre ha poi operato con la UBS Securities a New York nell’anno 1997. Un tecnocrate neoliberista. Berat Albayrak, genero di Erdogan, che si occuperà dell’energia. Albayrak è stato amministratore delegato della Calik Holding, che si occupa di tessuti, energia, costruzioni finaza, logistica e media. La cassa della famiglia Erdogan. Ha studiato alla London School of Business e alla Pace University di New York. Ha rappresentato la Calik negli USA. Insomma, un governo di tecnocrati unito ad un gruppo di fedelissimi del Presidente.