Il Framework 17+1 tra la Cina e l’Europa

Nel marzo 2019, il premier cinese Li Keqiang ha compiuto un lungo viaggio nell’Europa dell’Est.
Il riferimento per questo viaggio, pieno di incontri bilaterali, è stato quello che si trova nella Dichiarazione Congiunta del Summit EU-Cina del 9 aprile 2019.
Un testo in cui si affermano, come è normale, alcuni punti fermi: in primo luogo la Comprehensive Strategic Partnership, che è un documento che riafferma il multilateralismo strategico globale, e poi lo “sviluppo sostenibile”, qualunque cosa si voglia dire con questo termine, ma in cui, comunque, la UE riafferma la sua One-China policy.
Poi c’è anche il sostegno alla EU-China Cyber Task Force, il rafforzamento della Addis Abeba Action Force, i finanziamenti alla agenzia comune per le migrazioni, la volontà di raggiungere una l’economia globale e inclusiva, poi ancora il sostegno al Gruppo congiunto per la riforma del WTO, il sostegno ulteriore al G20, l’azione congiunta per il “Forum Internazionale per l’eccesso di produzione di acciaio”, senza dimenticare la riforma del sistema internazionale finanziario, per le nuove quote sociali del FMI, ma anche senza dimenticare l’”Accordo di Parigi sul Clima” e il relativo Protocollo di Montreal, ma nemmeno senza dimenticare la Blue Partnership per gli Oceani.
Sulla politica estera, come se il tutto resto non lo fosse, si esplicita il sostegno di entrambi gli attori, UE e Cina, al JCPOA nucleare del 2015 verso l’Iran, poi si parla del processo di pace in Afghanistan, ma poteva mancare il Venezuela? No che non manca.
C’è anche la richiesta, nella enciclopedia bilaterale di una soluzione pacifica e democratica per Kabul.
Senza nemmeno dimenticare, ci mancherebbe altro, il diritto dei mari ma, infine, il documento bilaterale si ricorda anche della situazione in Myanmar.
Una Treccani di temi internazionali importantissimi, di cui si proclamano solo i titoli e, per quanto mi consta, nemmeno nelle discussioni riservate si è andati oltre quelle buone intenzioni con le quali, si sa, è lastricato l’inferno.
La tensione, in quel summit, era percepibile nell’aria.
La Cina voleva avere la UE dalla sua parte, in una fase di massima tensione commerciale con gli Stati Uniti, mentre la UE aveva sempre più dubbi sull’estensione il Framework 17+1, della Belt and Road Initiative nei Balcani e nella ex-Jugoslavia.
E, si ricordi, Italia, Ungheria, Grecia e Portogallo rompono proprio in quel momento l’unità UE nei confronti di Pechino.
Solo un segnale, quindi, verso Bruxelles? Oppure una scelta ponderata sul fatto che la UE è una tecnostruttura che si affianca agli Stati, come dice la Germania, ma non li sostituisce? Non lo sappiamo ancora.
Ma è certo che la seduzione da parte della Cina verso l’UE mediterranea e orientale segue due operazioni: il lento abbandono da parte di Washington del pillar UE della NATO, chiunque sarà il presidente futuro, e la decisione, sempre da parte della Cina, di avere a che fare ormai, in UE, con una “tigre di carta”.
Ma Pechino ha compiuto una operazione ancora più pratica, secondo almeno la logica confuciana: il sostegno a una rete della Belt and Road, ovvero la “Rete 16+1”, a cui si aggrega la Grecia, che è al suo ottavo compleanno, per la cooperazione cinese con i Paesi del Centro e dell’Est europeo.
L’incontro di cui parliamo è avvenuto a Dubrovnik nell’aprile 2019.
La logica del Framework cinese è da porre in stretta relazione con la “Iniziativa dei Tre Mari” del 2016, che fu una iniziativa della UE alla quale la Cina semplicemente partecipò.
In questo momento, lo ripetiamo, la Grecia è entrata nel gruppo.
Il Framework nasce comunque nel 2012, a Budapest, per favorire la cooperazione dei 16 (allora) Paesi europei più la Cina, sulla base della nuova Via della Seta cinese e degli investimenti in infrastrutture, al fine di creare la China-Europe land and sea express line.
I Paesi europei aderenti al framework sono, sempre a parte la neofita Grecia, la Repubblica Ceca, la Polonia, l’Ungheria, l’Albania, la Bosnia-Erzegovina, la Bulgaria, la Croazia, l’Estonia, l’Ungheria, la Lituania, la Romania, la Serbia, la Macedonia, il Montenegro, la Slovacchia, infine la Slovenia.
Dei partecipanti attuali, 16 sono membri UE, cinque sono membri dell’area Euro, quattro sono candidati alla partecipazione alla moneta unica, uno è addirittura un potenziale membro UE.
Dal punto di vista geopolitico, la Cina si è costruita un formato ad hoc all’interno, o meno, della UE, un meccanismo che minimizza i rischi di crisi dell’eurozona, crea un’area di interesse autonoma per Pechino, può infine creare perfino una mainmise cinese dentro la UE, il che potrebbe anche minare il suo sviluppo futuro, se mai ci sarà.
Il consorzio cinese che gestisce l’operazione è la China-Road and Bridge Corporation, una società collegata alla China Communication Construction Company, una società segnalata da Fortune 500.
L’idea era, per i paesi dell’Est europeo, di utilizzare il sostegno cinese per stimolare il loro sviluppo ma, in un documento del governo ceco, si fa notare come gli impegni bilaterali siano ormai poco attesi.
Causa coronavirus e crisi finanziaria costante dei Paesi europei, oltre che a un carico debitorio spesso elevato da parte dei cinesi.
Ma l’UE ha cambiato, piuttosto rapidamente per i suoi tempi, la sua impostazione politica e economica nei confronti della Cina.
Nel gennaio 2019, infatti, veniva pubblicato un paper della “Confindustria” tedesca, la BDI, in cui si definiva la Cina come “investitore sistemico” e chiedeva alla UE di rafforzare le sue normative, per fare concorrenza alla Cina e proteggere le proprie imprese.
A ciò è seguito, nel marzo 2019, un documento dello European External Action Service, quella struttura di Bruxelles che crede, con risultati spesso comici, di essere un servizio segreto. Probabilmente di Paperopoli.
Il documento, tra Bruxelles e Paperopoli, ci dice che occorre a) rafforzare i rapporti con la Cina, ma con attenzione, per promuovere gli interessi comuni a un livello globale. Poi, b) di controllare gli investimenti cinesi in UE, in regime di parità (stiamo freschi) e poi ancora di spingere Pechino verso una economia “sostenibile”.
Uno psicolinguista dovrebbe comunque darci una mano per indagare gli effetti della parola “globale” nella mente dei dirigenti politici attuali.
Poi, il documento del commissario Basettoni ci informa che la UE dovrebbe cercare un rapporto più robusto e, soprattutto, reciproco per quel che riguarda i rapporti economici.
Infine si dice, ma guarda caso, che i Paesi del 17+1 dovrebbero operare in un rapporto omogeneo con le leggi UE. State tranquilli, lo faranno.
Poi, la solita solfa sui “diritti umani”, l’ovvio sviluppo “sostenibile”, ma senza dimenticare il cambiamento climatico, le pretese della Cina sul South China Sea che, immaginiamo, saranno perseguite con o senza le anime belle della UE, e ancora la richiesta di una connessione tra la Cina e la UE nell’Est Europa, a parte il Framework 17+1, che sarà comunque perseguita fino a che Pechino non ne vede il suo interesse, e infine la ripetizione, sostanziale, dell’accordo Cina-UE, già citato, del 2019.
Occorrerà qui che ricordiamo una utilissima nozione machiavelliana per evitare di rimanere nei fumetti: “la guerra non si lieva, ma si differisce a vantaggio di altri”.
Senza nemmeno dimenticare che “cum le parole non si mantengono li Stati”.
La soluzione del dilemma disneyano? L’UE ha avuto, con ogni probabilità, un fortissimo richiamo dagli Stati Uniti, e cerca di imbrigliare, rallentare e restringere i suoi rapporti con la Cina.
Per il 5G, tema essenziale per Washington, la Commissione Europea ha segnalato una serie di “misure necessarie”.
Il documento UE ci dice che la rete 5G è importantissima, ci mancherebbe altro, che poi l’Unione sostiene anche la competizione, il mercato globale e poi elenca le agenzie europee che se ne occupano.
La soluzione, per la UE è, infine, quella di favorire la cybersecurity “tramite la diversità dei fornitori nel momento in cui si costruisce la rete”.
Si ricordi che il Giappone ha siglato un accordo con l’UE, per le stesse materie, nel settembre 2019.
Tutto si saprà, comunque, dopo che il meccanismo di screening degli investimenti esteri della UE avrà fornito i suoi risultati, visto che è nato il 10 aprile 2019 e sarà applicato entro l’11 ottobre 2020.
Esso è collegato alla comunicazione della Commissione intitolata “una nuova strategia industriale per l’Europa” nella quale si sostiene che “abbiamo bisogno di un nuovo modo di fare industria in Europa” e che tutto ciò deve “riflettere i nostri valori e le nostre tradizioni di mercato sociale”.
Poi, “la nostra strategia industriale è imprenditoriale nello spirito e nell’azione” ma anche, e qui c’è un punto per noi importante, che “la scalabilità è fondamentale nell’economia digitalizzata”.
Tema essenziale, ma lasciato ai margini.
Lasciamo stare le altre ovvietà, tipiche di sessantottini neoconvertiti all’economia di mercato.
Naturalmente, la nuova Agenzia avrà come obiettivi quello di creare un “meccanismo di cooperazione tra la Commissione Europea e gli Stati membri per scambiare informazioni”, come se non ci fosse già, poi permettere alla Commissione una valutazione (non-obbligatoria, ci mancherebbe) per bloccare operazioni riguardanti un qualsiasi investimento estero, non si capisce bene se per le PMI o per altro, poi ancora il permesso da parte degli Stati membri di “commentare” gli investimenti esteri altrove nella UE, e ancora di elencare una sequenza ma non esaustiva, ci mancherebbe altro, di settori di investimento estero che potrebbero innescare una analisi da parte di questa potentissima sala da tè: le infrastrutture critiche, le tecnologie critiche, i critical inputs, l’accesso ai dati personali, infine la garanzia del pluralismo dei media.
Che c’entra poco. Ma tutto fa brodo.
Ecco, questo è tutto, finora.
Intanto, la Cina ha costituito, nel dicembre 2015, la PLASSF, in sigle occidentali, la People’s Liberation Army Strategic Support Force, la struttura delle FF.AA. di Pechino che si occupa di cyberwarfare, guerra spaziale e operazioni elettroniche. Ce l’ha l’UE?
Certo che no. La NATO, poi, ha una politica di cyberdefence, definita nei summit del Galles del settembre 2014 e di Varsavia del 2016. Ma nessuna agenzia unita per il cyber, che non è solo difesa, è anche attacco