Il Next Generation EU sottrarrà risorse all’innovazione ed alla competitività?

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Per l’Unione Europea la necessità di fare causa comune, contro e non solo, la caduta economica seguita al devastante effetto del Covid-19, era inevitabile. La crescente frammentazione dovuta agli interessi locali dei singoli Stati membri, il sovranismo dilagante, sono fattori che hanno tanto influito sulla crescita considerevole degli euroscettici. L’Unione Europea, mai come in questo delicato momento storico, doveva dimostrare di esserci e di poter essere la chiave di rilancio per tutti i cittadini europei.
L’accordo economico concordato in seno al Consiglio europeo sul Next Generation EU è un fatto epocale: per la prima volta nella storia dell’UE, vengono lanciate obbligazioni comunitarie per un importo di 750 miliardi di euro, che significa accendere un debito tutto europeo con emissione di titoli comuni per finanziarlo. L’Italia, nella seconda metà del 2021, riceverà una fetta considerevole di questa cifra, 209 miliardi di euro, a seguito di estenuanti trattative che alla fine hanno portato a raggiungere un compromesso.
Tutto perfetto?
Ovviamente no. In primis, quello che preoccupa è la politica che sta dietro a questo risultato epocale: si tratta difatti di una visione riduzionista del ruolo dell’UE, dove quello che conta è solo ottenere quante più risorse finanziarie possibili, mentre ogni euro speso viene considerato una perdita netta. Questo va contro l’idea stessa dell’integrazione europea: sono proprio i paesi che contribuiscono di più al bilancio UE ad ottenere i massimi benefici dal mercato unico. Pertanto, consolidare e persino rafforzare il sistema dei rebate, come è accaduto, per il pressing dell’Olanda a vantaggio di Austria, Danimarca, Paesi Bassi e Svezia è una politica di breve termine e puramente nazionale. Inoltre, non ha senso investire fondi se non vi è alcuna garanzia che verranno utilizzati correttamente. Il modello di finanziamento adottato dall’UE va completamente riformato ed attualizzato. Il focus deve essere sull’efficacia delle politiche piuttosto che sul saldo algebrico del denaro ricevuto o donato dal singolo Stato membro.
L’equilibrio nella gestione ambientale tra UE e resto del mondo, la potenziale convergenza delle differenti policy fiscali nei confronti dei big della tecnologia (Amazon, Microsoft, Apple, etc), il potenziale dell’enorme valore dei dati e delle informazioni dei cittadini europei, oggi diffusi gratuitamente ed a vantaggio di aziende soprattutto non europee, sono alcuni dei fattori chiave su cui puntare per garantire un futuro migliore a tutti i membri dell’UE. Ma la cosa che preoccupa di più è che queste ingenti risorse comportano un taglio a quei programmi europei orientati al futuro come il Just Transition Fund, Horizon o InvestEu che hanno finanziato e finanziano programmi dell’Ue con un orizzonte di lungo termine, e sono indispensabili per garantire innovazione e competitività alle aziende europee.
In definitiva, l’accordo rappresenta un passo in avanti enorme per l’Ue, perché finalmente abbatte due barriere storiche all’integrazione: l’emissione comune di debito ed i trasferimenti fiscali espliciti, seppur temporanei, tra Paesi. Inoltre, diviene una base per un aumento delle risorse proprie dell’Unione Europea e finalmente bilancia politicamente le azioni, seppur provvidenziali, gestite dalla BCE. La parte più difficile comincia adesso: decisioni impopolari e negoziati complessi, potrebbero rappresentare l’avvio di una profonda rivoluzione del sistema europeo a valle del recente completamento della Brexit e di una nuova guida franco-tedesca in cui l’Italia sta assumendo una posizione sempre più rilevante.