Il nuovo ruolo dell’Italia e il G7

Per la quarta volta consecutiva dalla sospensione della Federazione Russa dal G8 nel Marzo 2014 il vertice, nel ridotto formato G7, si è tenuto.
E questa volta a Taormina. Un vertice dei “leaders mondiali”, come si definiscono, con eccesso di ottimismo, i G7, fa davvero ridere senza la Cina e la Federazione Russa.
L’idea con cui è stata scelta la città siciliana, che fu peraltro presa dai saraceni tra il 905 e il 911 d.C., è stata quella di creare un ponte verso l’Africa e verso quello che Willi Brandt chiamava il “sud del mondo”.
Immaginiamo che questo implichi, da parte dell’Italia attuale, la speranza ingenua di poter essere, in futuro, il suddetto ponte verso l’Africa e, appunto, il “sud del mondo”.
Niente di più ingenuo.
L’interscambio tra Italia e il continente nero è stato, per il 2014, di soli 7,6 miliardi di Euro, petrolio e gas compresi, mentre le esportazioni raggiungono i 6,2.
Le economie di Sud Africa, Nigeria, Egitto, Ghana e Mozambico si stanno rapidamente indebolendo, in rapporto alla crisi delle importazioni nel Primo Mondo; e si depauperano di materie prime, che sono ancora la voce primaria degli scambi africani con UE e Usa.
La Cina eclissa oggi gli Usa nel mondo africano, oggi l’interscambio tra Pechino e tutta l’area del continente nero vale tre volte quello realizzato dagli Stati Uniti.
E la Cina non era presente, lo ripetiamo, al G7.
La Russia, pur molto presente sul piano politico e militare in Africa, non supera il 12 miliardi di Usd nell’interscambio con tutto il continente africano, ma nemmeno Mosca era presente al G7 in Sicilia.
E’ la comica storia delle “sanzioni”, comminate a Mosca per una azione con la quale i russi volevano evitare la destabilizzazione dell’Ucraina e, prima, della Georgia, assi inevitabili del suo export petrolifero e gaziero.
In sostanza, credere che l’Italia sia necessaria nei rapporti tra tutto l’occidente e l’Africa è davvero una idea velleitaria da mosche cocchiere, un vezzo diplomatico e strategico che ci portiamo dietro fin dai tempi di Francesco Crispi, siciliano pure lui, che consigliava ai diplomatici del Regno d’Italia di “sedere in tutte le riunioni, per far vedere che anche l’Italia conta”.
Tutta l’Africa è previsto che raddoppi la sua popolazione fino a due miliardi nel 2050, mentre l’interscambio del continente nero con l’Occidente è composto, per la metà, da due soli Paesi, Sud Africa e Nigeria, e in entrambi casi per le voci petrolifere l’uno e minerarie il secondo.
E come la mettiamo con l’immigrazione, dati questi dati demografici?
Se si vanno a vedere i punti di crisi recenti del nostro debito pubblico, scopriamo infatti che essi sono contemporanei alle crisi migratorie e ai loro costi, ormai tali da deformare la nostra spesa pubblica.
Solo due Paesi africani, poi, esportano più di quanto importino, ovvero il Botswana e lo Swaziland, mentre tutti gli altri sono importatori netti di beni e servizi.
Solo dieci Paesi africani, ancora, tra i 54 oggi esistenti, assorbono il 92% degli Investimenti Esteri Diretti in Africa, ovvero sono l’Egitto, il Marocco, l’Angola, il Ghana, il Mozambico, l’Etiopia, il Sud Africa, la Tanzania, la Nigeria e il Kenya.
La Russia programma, è ormai noto, di sviluppare in Africa una base militare sulle coste libiche e manda le sue forze speciali in Egitto, mentre la Cina sta costituendo una sua postazione militare a Gibuti.
Chi è il “ponte”, oggi?
Chi conquisterà l’Africa, quindi, le potenze del G7 che ancora puntano tutte le loro carte sul governo di Al Serraj, che in questi giorni sta peraltro contrastando una rivolta contro il suo governo proprio a Tripoli, oppure Pechino e Mosca, che al G7 siciliano non potevano sedere?
E come si risolverà il caos libico, creato, forse ad arte, da alcune potenze del G7 anche contro l’Italia, senza l’aiuto di Mosca, che sostiene Haftar insieme alla Francia, e della Cina?
L’Italia non ha basi in Africa, e vorrebbe persino fare il “ponte”, mentre Pechino sta a Gibuti, vicino al Campo Lemonnier nordamericano, la Francia in Ciad, con truppe anche in Burkina Faso, Mali, Mauritania e Niger e ancora Gibuti, la Germania ha una base a Niamey, l’India ha una base nel Nord del Madagascar e alle Seychelles, la Turchia addestra truppe in Somalia, gli Emirati Arabi Uniti sono ad Assab, la baia da dove iniziò proprio la colonizzazione italiana del Corno d’Africa, con una base anche all’aeroporto Al Khadim in Libia, la Gran Bretagna ha una base a Nanyuki, vicino a Nairobi, oltre alle sedici basi USA, tutte e sempre in Africa.
Insomma, il G7 non ospita, grazie alla follia sanzionista, la Russia e nemmeno la Cina, mentre crede di mettere d’accordo, secondo quello che ormai appare un format televisivo, le sette potenze economiche del Pianeta che non sono d’accordo su nulla; e ci mancherebbe altro.
La guerra fredda è finita da un pezzo, e oggi vale la regola, ma non per l’Italia, dell’ognun per sé e Dio per tutti.
Esilarante poi la credenza di poter disporre, in futuro, di un “grande mercato” africano per le nostre esportazioni mentre si accetta e talvolta si stimola un vero e proprio trasferimento di popolazioni dal continente nero all’Occidente europeo, mentre, lo ripetiamo, è stato proprio l’occidente a incendiare la Libia e a destabilizzare, con tutte le sciocche chiacchiere sui “diritti umani”, il resto dell’Africa.
La Sicilia, patria di Pirandello, era quindi il luogo ideale per questo “sette personaggi in cerca di autore”.
L’Italia, in sostanza, non conta assolutamente niente, sul piano della politica estera; e questo accade mentre struttura la sua economia per l’export.
Una crescita del 2,8% quando, su base annua, le esportazioni italiane crescono addirittura del 19,7%.
Allora, quale politica estera per la nostra economia export-led?
Quella tedesca, ovvero di un Paese che ci fa una durissima concorrenza, acuita dalla moneta comune, o degli Usa, che ormai se ne fregano altamente dell’Europa, mentre Trump ha utilizzato Taormina per regolare i suoi conti con Berlino?
Se il premier Gentiloni, collezionista di gaffes come quella, gravissima, del grave ritardo alla recente conferenza di Pechino, continuerà, come peraltro il suo mentore e predecessore, ad appiattire la politica estera italiana su quella onusiana o Usa, pensando di essere ancora negli anni ’50 della sua infanzia, sbaglia di grosso.
Oggi, se non è ancora apparso chiaro, la NATO si avvia alla sua obsolescenza, dato che il presidente Trump vuole un riequilibrio delle spese e nessuno dei membri europei dell’Alleanza Atlantica ha risorse o interesse per collaborare ad una sua nuova architettura, o perché non ha gli stessi interessi geopolitici o perché non ha i soldi per rifinanziare la attuale struttura NATO.
Per non parlare nemmeno del comico progetto di unirsi alla alleanza, diretta dagli USA, e quindi comprendente forze parajihadiste, per contrastare il Daesh-Isis in Iraq e in Siria, una alleanza nella quale la NATO opererebbe in non combat roles.
Tutte le 28 nazioni che partecipano alla Alleanza Atlantica sono peraltro già presenti autonomamente in Iraq e in Siria, e questo dopo che Trump ha creato una nuova struttura araba e sunnita che dovrebbe contrastare il terrorismo jihadista da una parte ma, soprattutto, il sistema sciita iraniano.
La passione degli Stati Uniti per i sauditi dura, lo ricordiamo, dal 1933, con la fondazione della ARAMCO, quando il padre di “Kim” Philby, uomo dei Servizi britannici, favorì gli Usa invece delle imprese estrattive di Londra.
Sangue di traditori, verrebbe da dire.
Il documento finale è poi un riassunto degli errori più banali di politica estera, italiana in primo luogo, soprattutto oggi che gli ex-comunisti sono diventati banali ripetitori di tutte le mode nordamericane, ma anche degli ormai sedicenti “leaders mondiali”, che sono tali ormai solo per i no global che sistematicamente li contestano.
E pensare che i documenti del G7 e le sciocchezze no global si assomigliano tanto.
Ai punti 1-9 del documento finale, non si tratta di “islamisti cattivi” e terroristi, ma di un progetto islamico (spesso legato proprio agli amici sunniti dell’Occidente) di chiusura di tutte le aree-cuscinetto mondiali, da rendere instabili per evitare che vengano prese da europei, nordamericani, russi e cinesi.
Il jihad della spada non è un crimine come l’assassinio a mano armata, ma un progetto geopolitico.
Viene qui da ricordare come, e siamo in Sicilia, la mafia non era anticamente compresa nella sua struttura perché ogni reato da essa compiuto non mostrava tratti associativi.
Non ci sono ancora i Falcone e i Borsellino della geopolitica islamica, verrebbe da dire.
Non meritano nemmeno menzione, qui, i luoghi comuni sul finanziamento dei terroristi, che riguarderebbe molti dei Paesi arabi che sono stati federati da Trump proprio per combatterlo.
O per combattere l’Iran, magari.
Si tratta qui di un doveroso atto di sostegno mediatico alla Gran Bretagna e nulla più, in un lungo libro dei desideri che necessiterebbe di ben altre leadership per essere realizzato.
O compreso.
Non ho voglia nemmeno di citare le banalità, peraltro erratissime, sulla “mancanza di inclusività sociale” che porterebbe gli islamici a divenire terroristi. Una sciocchezza sesquipedale che si scontra con l’evidenza dei fatti.
Quanti sono stati i jihadisti provenienti da famiglie benestanti? Almeno, secondo un rapido calcolo, il 60% di tutti quelli suicidatisi o scoperti prima delle azioni terroristiche.
Luoghi comuni a non finire poi, da distratto lettore di mediocri quotidiani, sull’economia.
Attenzione alle start-up, nuovo mito economico occidentale, finanziate oltre ogni limite dai governi e, spesso, in grave crisi da sovraindebitamento, attenzione alla cultura digitale da parte delle imprese e dei cittadini, altro facile mito da distratto lettore di giornali, infine il sostegno per i diritti di proprietà intellettuale.
E pensare che la crisi dell’occidente, e qui ha ragione Trump, deriva proprio dalla delocalizzazione selvaggia di aziende mature verso aree a basso costo della forza-lavoro, altro che innovazione e digital economy, aria fritta per tirare avanti come si può.
Aziende mature che avevano bisogno di innovazione, certo, ma che potevano rimanere tranquillamente in loco.
Basti pensare al settore dell’automobile, o a quello delle macchine utensili, tutte aree da cui dobbiamo reimportare i prodotti.
Casomai, dovevamo globalizzare per inserirci nei nuovo mercati, non arrenderci all’evidenza di un costo del lavoro bassissimo.
Se si potessero infatti controllare i “padroni” che delocalizzano, in aree senza welfare, protezione sindacale, salari accettabili, tutto sarebbe più semplice.
Ma nessuno, oggi, si può permettere di parlare contro la globalizzazione, e anche i no global sono figli delle stesse ideologie che contestano.
O c’è allora il lavoro produttivo, quello che Adam Smith riteneva legato al sistema di produzione industriale, o c’è quello improduttivo, che il filosofo ed economista scozzese riteneva caratteristico di “preti, puttane, filosofi”.
Anche la Next Production Revolution è un mito. Una invenzione dell’OECD per il G7 di Taormina.
Nuovi materiali, nanotecnologie, stampa in 3D, bioprodotti, tecnologie digitali, la NPR è una raccolta di meraviglie, tutte labor saving, mentre oggi avremmo bisogno di tanti posti di lavoro, una ideologia NPR che ricorda da vicino la speranza nel nuovo anno del venditore di almanacchi leopardiano.
E chi le paga le pensioni future, le stampanti in 3D?
E, poi, come ritornerebbero in Occidente i sovraprofitti generati dalle delocalizzazioni?
Siamo ancora, qui, nella voodoo economics sulla quale ironizzava, vedendo la Curva di Laffer, George Bush padre.
La Curva di Laffer, lo ricordiamo, era quella equazione che mostrava, non si sa come, che l’abbattimento delle tasse avrebbe portato ad un maggiore prelievo fiscale.
Anche qui si dimenticava la delocalizzazione, peraltro.
Non accenniamo nemmeno, per carità di Patria, ai principi di “people-driven innovation”, che nessuno ci ha spiegato in cosa consista.
Una economia simile alle assemblee del sessantotto, peraltro frequentate con passione, allora, dal primo ministro Gentiloni?
E ancora, ci troviamo davanti alla sciarada di una “crescita generata dall’innovazione inclusiva e sostenibile”.
Lingua di latta in bocca di legno, come dicevano gli oppositori russi del gergo sovietico brezneviano.
Tanto per dire, l’innovazione fa parte, oggi, del 16% dei prodotti che compriamo.
Ma una pagnotta è una pagnotta è una pagnotta, per parafrasare Gertrude Stein, e lì l’innovazione, di prodotto o di processo, è bene che non ci metta troppo le mani.
L’ologramma della pagnotta non sazia, anche se saremo tra poco dei cani di Pavlov.
L’idea poi che l’occidente debba produrre solo ricerca&sviluppo, mentre sale l’età media, scende il reddito disponibile, aumenta il debito pubblico, è un concetto da abbandonare rapidamente.
E’ la voodoo ideology che giustifica il trasferimento delle industrie produttive altrove e nulla più.
Ma poi, cosa dovrebbe essere l’ormai inesistente politica estera italiana?
Per ora vediamo solo appiattimento sulle politiche onusiane in Libia, dove siamo stati costretti a bombardarci da soli da Gran Bretagna e Francia, che volevano il petrolio locale e sostenere la follia nordamericana delle “primavere”, vediamo un appiattimento ingenuo sulla UE, dove tutti giocano la loro partita nazionale meno che noi e una vera e propria mistica dell’Alleanza Atlantica, che è ormai o da chiudere o da trasformare radicalmente.
Una politica da parvenu, di quelli che da ex-nemici vogliono sembrare più realisti del re.
Come, probabilmente, accadrebbe ai no global attuali se dovessero discettare sulle loro banalità proprio al G7.
L’Italia è finita e senza una politica estera connessa all’interesse nazionale anche l’economia italiana sarà presto agli sgoccioli.

GIANCARLO ELIA VALORI