Il referendum distruttivo

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di Pietro Di Muccio de Quattro

Tra i tanti referendum previsti dalla Costituzione, tra i quali in primo luogo il costituzionale e l’abrogativo, rischiamo drammaticamente di veder inserito l’inusitato referendum legislativo, che intendo oggi battezzare, come merita la sua enormità, “referendum distruttivo”. La Camera dei deputati, nella sostanziale disattenzione, se non indifferenza, dei media e dei cittadini, insomma di quel popolo evocato di continuo, ha iniziato la discussione della proposta di legge che modifica l’art.71 della Costituzione in materia di iniziativa legislativa popolare. L’intenzione di questa riforma, che vorrei giudicare solo dal punto di vista della ragione critica e della teoria politica, per cercare di sottrarmi alla pregiudiziale partitica, sarebbe quella, variamente elogiata pure dagli oppositori parlamentari, di avvicinare il popolo alle istituzioni. E’ scritto a riguardo nel parere della Commissione Esteri della Camera: “Il provvedimento è finalizzato a potenziare e rendere più effettivi nel nostro ordinamento gli strumenti della democrazia diretta e partecipativa, nonché ad assicurare trasparenza ed efficienza alle nostre istituzioni, così da gratificare innanzitutto la crescente domanda di partecipazione dei cittadini alla vita della nostra Repubblica e ricostruire il legame di fiducia tra i cittadini e, tra tutte, la più alta istituzione rappresentativa.” A parte la bolsa retorica (e il troppo vasto programma!), la riforma intende conferire a cinquecentomila elettori il diritto di presentare alla Camera e/o al Senato una proposta di legge ordinaria. E, fin qui, sembrerebbe solo un potenziamento del già esistente diritto di almeno cinquantamila elettori, diritto che nulla vieta di esercitare a più di cinquantamila elettori, come pure è accaduto. Sennonché la riforma aggiunge che, se le Camere non approvano la proposta popolare entro diciotto mesi dalla presentazione, “è indetto un referendum per deliberarne l’approvazione.” Voce dal sen fuggita o, se preferite, lapsus freudiano, questa disposizione sembra pure sbagliata. Dovrebbe essere espressa correttamente così: “è sottoposta a referendum”.

Prescindendo dagli altri limiti di ammissibilità del referendum, opportunamente fissati, la proposta non è ammessa “se non provvede ai mezzi per far fronte ai nuovi o maggiori oneri che essa importi.” Facile immaginare quali e quante lotte dei comitati presentatori per spartirsi la torta del bilancio pubblico, prendendo per la propria lobby e togliendo alle altrui lobbies. La finanza pubblica messa nelle mani di gruppuscoli e fazioni! E per fortuna nella discussione parlamentare è stato accolto l’emendamento secondo cui l’approvazione della proposta risulta valida se ottiene la maggioranza dei voti validamente espressi nel referendum “purché superiori a un quarto degli aventi diritto.” Diversamente, la proposta avrebbe potuto essere approvata, per assurdo, anche soltanto dai cinquecentomila promotori, se tutti gli altri si fossero astenuti, oppure da minoranze infime, che così avrebbero prevalso sulla maggioranza parlamentare, come sto per chiarire.

La bomba atomica che verrebbe innescata sotto Palazzo Madama e Montecitorio sta in questo comma: “Se le Camere approvano la proposta in un testo diverso da quello presentato e i promotori non rinunziano, il referendum è indetto su entrambi i testi. In tal caso l’elettore che si esprime a favore di ambedue ha facoltà di indicare il testo che preferisce. Se entrambi i testi sono approvati, è promulgato quello che ha ottenuto complessivamente (complessivamente, sic!) più voti”. Anche di fronte a variazioni minime nel controprogetto parlamentare i promotori possono insistere sul referendum, al quale non è proprio sicuro se debbano essere sottoposte due o tre opzioni, comprendendovi il mantenimento della legislazione vigente, qualora esistesse. Chi respinge il progetto popolare e il controprogetto parlamentare dovrebbe avere il diritto di votare per il mantenimento dello status quo e non essere tagliato fuori dalla consultazione referendaria. Sebbene il giudizio di ammissibilità del referendum sia opportunamente attribuito alla Corte Costituzionale e varie e sostanziose norme applicative siano rimesse ad una successiva legge ordinaria “rinforzata, cioè da approvare a maggioranza assoluta, non ne viene meno né si attenua l’intrinseca distruttività della riforma.

I motivi sono così evidenti che i sostenitori non si abbassano a confutarli ma affettano superiorità appollaiati sull’idolo della democrazia diretta. Ma conficcare nella ruota della democrazia rappresentativa il bastone della democrazia sedicente partecipativa, non rafforza la prima né realizza la seconda. Semplicemente blocca la democrazia tout court, forse neppure voluta. Introdurre un istituto che rende permanente, in potenza e in atto, il conflitto tra rappresentanti parlamentari, comitati presentatori, cittadini elettori, nel mentre il Parlamento siede nella pienezza dei poteri derivanti ad esso dalla sovranità popolare, sovverte il sistema del libero governo rappresentativo, conosciuto com’è dove viene praticato.

Parlando in generale, nelle questioni costituzionali lungo il corso della storia i riformatori improvvidi hanno sempre mostrato di essere supponenti ed impazienti. Come adesso, con questo farraginoso e stupefacente meccanismo di produzione legislativa.