L’Occhio di Leone, ideato dall’artista Giuseppe Leone, è un osservatorio sull’arte visiva che, attraverso gli scritti di critici ed operatori culturali, vuole offrire una lettura di quel che accade nel mondo dell’arte, in Italia e all’estero, avanzando proposte e svolgendo indagini e analisi di rilievo nazionale e internazionale.
di Azzurra Immediato
Quando Ilaria Abbiento scatta una fotografia, in realtà, è come se si librasse sul Mediterraneo o come se si inabissasse nelle sue profondità. Ogni scatto, poi, è tassello di una immensa e mai finita cartografia che, negli anni, ha dato vita ad una geografia interiore, ad un atlante intimo che l’osservatore può scoprire con la stessa delicatezza e la stessa forza che, al tempo stesso, appartengono alle onde. L’immagine diviene, per Ilaria Abbiento, segno indicale per trascrivere la propria storia, il proprio vivere. E proprio per continuare nel solco della traccia che la Abbiento ha delineato, in un anno così complesso in cui la quella che definisco ‘la fotografia dell’altrove’ ha delineato una visione altra rispetto al reale, le ho posto le #3domande
Cos’è per te la fotografia, Ilaria?
Il poeta francese Alphonse de Lamartine descrisse la fotografia come un’arte e “anzi più che un’arte, è il fenomeno solare in cui l’artista collabora con il sole”. Amo molto questo pensiero che, poeticamente, celebra un legame che non può disciogliersi tra l’immagine e la luce. Penso alla fotografia come ad una pratica artistica che, attraverso una narrazione visiva, può rivelare ’l’emulsione luminosa’ composta da particelle liquide del mio ’oceano interiore’. La poetica della mia ricerca è un racconto costellato da immagini fotografiche, parole, poesie, tracce materiche. La fotografia è, per me, uno specchio d’acqua in cui, ‘come nel mare’, mi perdo per ritrovarmi.
La tua ricerca fotografica, un lungo peregrinare attraverso lo sguardo, ha però, nella sua mappatura, alcune tappe che potremmo definire immutabili da un punto di vista ontologico e filosofico. Raccontaci di questo dialogo.
La mia ricerca artistica è incentrata sul tema del mare, nell’esercizio costante di osservarlo ne scopro la ‘dolcezza turchese’ che diviene ossimoro della mia esistenza. È l’elemento fluido che, persistente, appare in tutte le mie opere, è il fil rouge che le unisce. È nel mare che attraverso ’un’immersione’ introspettiva costruisco il mio poema, un racconto immaginario a capitoli, in cui disegno una geografia di pensiero, elaboro cartografie immaginarie, traccio coordinate invisibili e svelo i contorni delle isole del mio arcipelago interiore. La costa, l’oceano, e poi l’isola, elementi ricorrenti che attraversano la mia poetica. Le mie opere dialogano tra loro, anche a distanza di anni, e proiettano così nel tempo l’azzurra mappatura del mio ‘stare al mondo’ le mie tempere, le mie ferite, i miei frammenti, le mie continue osservazioni. L’arte mi permette di nuotare in superficie e in profondità di questa grande cartina blu.
Chi conosce il tuo lavoro sa bene che da anni hai scritto, mediante la fotografia e lo sguardo immaginifico, una sorta di carta esistenziale, traccia di un moto ondoso reale ma anche interiore che, il 2020, ha reso a tratti tempestoso. Qual è la direzione che d’ora innanzi hai deciso di dare al tuo continuo viaggio fotografico?
Per alcuni anni ho navigato a vele spiegate nel mio atlante immaginario. Nel 2020 ho perso mio padre, il mio faro, e con lui la mia rotta. Mi sono sentita perduta su un battello al centro dell’oceano senza più alcun punto di riferimento. Ho trascorso molto tempo in ‘apnea’ trattenendo il dolore nel cuore, ma nel riemergere, pian piano, sto imparando ad osservare le stelle e ad orientarmi in questa nuova ‘geografia dell’assenza’. Non ho mai smesso di viaggiare per mare, nonostante la tempesta, anche solo col pensiero, ricucio gli strappi alle mie vele, elaboro nuove coordinate, sperimento nuovi materiali, mi tempro nel pensiero dell’attesa di nuove odissee. Sono consapevole che la mia ricerca ha intrapreso una nuova rotta e, malgrado questa difficile traversata, ora mira a raggiungere altre mete, a tracciare nuove linee di pensiero e, riguardo le mie opere, ancora fluttuanti nel mare, so che si ‘asciugheranno al sole’ per divenire sempre più essenziali.
Essenzialità di superficie, poesia di profondità paiono essere i due fermi che puntellano alla terraferma le fotografie e l’intero lavoro di ricerca di Ilaria Abbiento che, dal mare di Napoli si spinge sempre più oltre con il proprio operare. Alla purezza del pensiero fa da eco la sirena della memoria. “Così continuiamo a remare barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato” si legge nel Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald ed invece, la Abbiento ha saputo trarre ispirato moto anche dalla corrente avversa e contraria, con la forza ancestrale del mare e l’azzurra volontà di guardare l’infinito attraverso gli abissi e i riflessi delle acque.