Imprese, il nutrimento indispensabile del credito ordinario

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Un tema torna ad affacciarsi dalle pagine dei giornali: il credito alle imprese. Alle imprese più piccole, per la precisione, che sono il 90 per cento di quelle italiane e costituiscono – come si dice – la spina dorsale del Paese economico. L’affaccio per ora è timido. Perché ad ammettere di aver bisogno delle banche per sopravvivere, per come si sono messe le cose, non si fa una bella figura.

Se è vero che il panorama imprenditoriale italiano comprende un 20 per cento di aziende in ottima salute (che innovano, crescono e fanno utili), un altro 20 per cento in posizione disperata (in lotta quotidiana per non fallire) e un 60 per cento che sta in mezzo e che potrebbe essere aspirato verso l’alto come trascinato verso il basso, è a quest’ultimo gruppo che occorre guardare per capire.

I primi della classe sono corteggiati e fatti segno di molte attenzioni. Per loro avanza anche un interessante pacchetto di opportunità, dalla piattaforma Elite ai Piani individuali di risparmio (Pir), studiato apposta per garantire nuova finanza e apporto di risorse fresche nel capitale. Sono competitivi e protagonisti sui mercati internazionali. Esempi da seguire e ammirare del Paese migliore.

Gli ultimi della classe si reggono a malapena in piedi. Resistono per orgoglio e perché in Italia non farcela, chiudere bottega, è considerato un tragico evento piuttosto che una forma come un’altra per chiudere un’attività che non promette più di andare bene. Le resistenze sindacali, i possibili strascichi giudiziari, i giudizi morali sono così forti da condizionarne l’esistenza.

Quelli della sufficienza, che potrebbero ben figurare se s’impegnassero un po’ di più, ma che potrebbero anche scivolare nell’insufficienza se non corrono ai ripari, sono nella posizione più delicata. La classe, il Paese, vince o perde a seconda di che fine faranno: promossi nella maggiore quantità possibile o bocciati dal mercato con le conseguenze che si possono immaginare.

Ebbene, questo grande corpo sociale – addetto alla creazione di ricchezza e di posti di lavoro – ha bisogno come il pane di credito tradizionale. Ha bisogno che le banche sappiano valutare criticità e potenzialità e vogliano scommettere sulle seconde senza farsi condizionare dai soli parametri quantitativi che di tutto possono parlare tranne che della vita pulsante di un’impresa e di un imprenditore.

Ma il credito tradizionale, come si conosceva una volta – un po’ usato per mettere una pezza alle difficoltà di gestione, un po’ diretto allo sviluppo di nuovi affari – sembra scomparso dall’orizzonte dei banchieri anche se tutti concordano sulla sua utilità e il suo insostituibile ruolo. Talmente insostituibile che niente e nessuno può prenderne il posto lasciando un vuoto che occorre a tutti costi colmare.

Ma le regole della burocrazia sembrano avere la meglio su quelle del buon senso e una nuova doccia fredda si abbatte sul popolo delle piccole imprese sotto forma di una stretta che la Bce vorrebbe imporre alle banche nel trattamento dei crediti difficili. Una stretta così micidiale che – protestano all’unisono Confindustria, Abi e Banca d’Italia – il credito ne verrebbe ulteriormente strangolato.

Ma gli uomini e le donne, i giovani di questo Paese e di questo mondo, vivono di economia reale. E non possono morire di provvedimenti di virtù virtuale. Pensati al vertice d’istituzioni con occhi rivolti tanto in alto da non poter vedere quello che accade a valle, tra le persone in carne e ossa. Dove operano le imprese per le quali il credito ordinario è un nutrimento indispensabile.