Innovazione fa rima con occupazione

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Tutti erano ‘lavoratori’ durante l’età della pietra. Ognuno doveva svolgere le mansioni di cacciatore e raccoglitore, per non morire di fame. Poi le cose sono cambiate e nel corso dei secoli si sono succedute trasformazioni epocali per l’umanità, fino alla Rivoluzione industriale che ha cambiato radicalmente e rapidamente ogni ambito della vita umana: dalla crescita esponenziale della popolazione mondiale all’esplosione dei fenomeni migratori su larga scala (tra 1815 e 1914, ad esempio, abbandonano l’Europa circa 60 milioni di persone), dallo sviluppo della vita urbana ai nuovi rapporti tra città e campagna.
Ognuna delle rivoluzioni tecnologiche che l’umanità ha attraversato ha portato con sé due conseguenze: la nascita di lavori nuovi da una parte, la trasformazione dei vecchi lavori dall’altra, determinandone spesso la marginalità o la scomparsa. Capire e metabolizzare tutto questo in chiave storica è fondamentale per comprendere la realtà e le nuove sfide economiche e sociali che abbiamo davanti: in Italia – ma anche in tanta parte del mondo occidentale – questo non accade o accade a corrente alternata, animando dibattiti che sfociano spesso in pericolose e antistoriche tentazioni neoluddiste.
Invece, mai come oggi andrebbe riletta la “Petizione dei fabbricanti di candele“, con la quale Frédéric Bastiat ridicolizzava gli argomenti protezionistici e anti-innovazione attraverso l’immaginaria lamentela, appunto, dei produttori di candele contro la concorrenza sleale del sole.
Il sindacato può essere oggi un collante fondamentale della coesione sociale e può contribuire allo sviluppo e alla crescita? Ne abbiamo parlato con il segretario dei metalmeccanici della Cisl, Marco Bentivogli, autore di “Abbiamo rovinato l’Italia? Perché non si può fare a meno del sindacato” edito da Castelvecchi, un testo di cui in questi giorni arriva in libreria la seconda edizione, che parte dall’analisi di come sta cambiando la geografia del lavoro, in Europa e nel mondo, e approfondisce il contesto in cui si inserisce la nuova fabbrica in quella che viene definita la Quarta Rivoluzione Industriale.

L’Industria 4.0 è un’occasione da non perdere per il rilancio del Paese, se non vogliamo accontentarci di pochi decimali di crescita per tanti anni ancora. Oltre un terzo (38%) delle imprese industriali censite dal Politecnico di Milano dichiara tuttavia di non conoscere i temi della Quarta Rivoluzione Industriale in corso. Quali sono le cose da fare per cogliere queste nuove opportunità?
La quarta rivoluzione industriale è l’ultima opportunità di sviluppo per rilanciare il Paese. Perché ciò avvenga davvero serve ripensare l’intero sistema paese in modo che tutte le parti agiscano con responsabilità e integrazione: pochi obiettivi ma tutti insieme, questo dovrebbe essere il nostro slogan. È necessario inoltre investire su un ecosistema 4.0. Ma il vero punto di snodo è rappresentato dalle piccole e medie imprese, ancora lontane – salvo qualche apprezzabile eccezione – dal sintonizzarsi sulle frequenze della fabbrica intelligente. Un impulso ad investire sull’innovazione può essere dato dalla partecipazione dei lavoratori, declinata anche nella nuova contrattazione territoriale e aziendale. Ciò richiede, prima di tutto, che via sia un cambiamento culturale: il lavoro non può essere un terreno di scontro ideologico, ma di costruzione e dialogo. Il piano Calenda, con cui il governo sta provando ad accompagnare le nostre imprese verso Industry 4.0, va nella giusta direzione operando in una logica di neutralità tecnologica, grazie alla scelta di fiscalizzare gli incentivi (13 miliardi). Aggiungo che sarebbe necessario anche riorganizzare il sistema di incentivi già disponibili, per evitare che vengano dispersi, ed effettuare una selezione per assicurarsi che quelle risorse vadano effettivamente ad innovare la manifattura 4.0

Nel Piano Calenda è prevista inoltre la costituzione di Competence Center e Digital Innovation Hub. Nella scia di quanto sta già avvenendo da anni in altri Paesi, ad esempio con i Catapults in Inghilterra, il Cornell Tech a New York o i Fraunhofer Institute in Germania, la FIM sta lavorando per dare il proprio contributo, assieme ad Adapt, per far nascere anche nel nostro paese i Competence Center, per rendere concrete ed efficaci le reti nelle quali operano i soggetti che interagiscono nell’ecosistema 4.0: dalle imprese ai centri di ricerca e a quelli della formazione, ai lavoratori – dei quali va valorizzato il contributo cognitivo – ai processi di integrazione e di implementazione delle nuove tecnologie, alla produzione e ai consumatori, in un’ottica di sostenibilità. L’intento è quello di scrivere un Libro Bianco che provi a tracciare la strada da percorrere sul tema di Industria 4.0 e sullo sviluppo delle competenze che questa richiede, proprio a partire dalle esigenze di imprese e lavoratori impegnati in questi processi di transizione.
Serve poi rimuovere le cause strutturali che rendono il nostro paese un habitat sfavorevole all’impresa: l’eccesso di burocrazia, un sistema giudiziario lento e farraginoso, un costo dell’energia superiore del 30% alla media europea e un sistema creditizio che preferisce investire nella rendita piuttosto che nell’impresa. Occorre poi realizzare un sistema formativo efficiente. Siamo il Paese che ha il più elevato gap di competenze rispetto alle skills necessarie oggi e in futuro. Fino a non molti anni fa buona parte di ciò che si apprendeva all’Università – e stiamo parlando di alta specializzazione – si modificava nell’arco di 15 anni. Oggi il lasso di temporale si è ridotto a sette se non quattro anni. Investire in formazione, dunque, non è strategico: è vitale. In questa prospettiva nuova, bisogna passare dalla “protezione del posto di lavoro” alla “promozione del lavoratore”. Per questa ragione, nel contratto dei metalmeccanici abbiamo inserito il diritto soggettivo alla formazione, che a nostro avviso rappresenta una sorta di diritto al futuro. Abbiamo aperto una pista, ora bisogna lavorare su un sistema formativo duale che funzioni e che renda finalmente operativa l’alternanza scuola-lavoro.

La produttività del lavoro della manifattura USA è cresciuta mediamente del 3,2% all’anno tra il 2000 e il 2014, mentre quella UE è cresciuta solo del 2,1%. Quella italiana è addirittura scesa in molti comparti. Come affrontare questa disastrosa situazione, invertendo la rotta?
Siamo il paese con il Clup (il costo del lavoro per unità di prodotto) più alto d’Europa: finché non ci decidiamo ad intervenire su questo fattore c’è poco da discutere. Gli investimenti in tecnologia e in una nuova organizzazione del lavoro possono rappresentare la carta vincente da giocare per recuperare produttività e competitività e quindi creare anche nuova occupazione. Tra il 2011 e il 2014 la produttività totale dei fattori (Tfp) misurata dall’Istat è cresciuta di più dove si è investito in nuove tecnologie. È anche per questa ragione che la crisi ha avuto conseguenze gravi, trovandoci impreparati. In realtà se verifichiamo il Clup delle PMI, nelle quali in Italia lavora quasi il 90% delle persone, è altissimo, in particolare per quelle sotto i 20 dipendenti. Il Clup sopra i 200 dipendenti è sui livelli nordeuropei.
Abbiamo perso oltre 300mila posti di lavoro nel solo settore metalmeccanico: interi settori industriali, penso a quello dell’elettrodomestico, sono stati spazzati via. Alla base di queste difficoltà c’è però anche un deficit di cultura imprenditoriale e manageriale, da cui deriva la diffidenza verso i temi dell’innovazione così come verso quelli della partecipazione. C’è poi un altro fenomeno preoccupante, che è, come già accennavo, il ripiegamento nella rendita: la perdita di 87 miliardi di investimenti si spiega anche così. L’errore di fondo è pensare che in Italia non ci sia più spazio per l’industria manifatturiera. Lo spazio invece c’è, purché si investa nell’innovazione sia sul versante delle nuove tecnologie che dell’organizzazione del lavoro. I casi di reshoring, vale a dire di rientro di produzioni precedentemente delocalizzate, che si sono verificati in FCA a Pomigliano e in Whirlpool lo dimostrano.

C’è chi sostiene che le macchine tolgano lavoro agli esseri umani e ne diminuiscano i salari. Eppure, anche se una nuova tecnologia può spingere qualche lavoratore a cambiare lavoro o a ricevere temporaneamente un salario inferiore, la società, nel suo insieme, ne trae beneficio. Inoltre, nel medio-lungo periodo, anche la qualità e la quantità del lavoro tendono a beneficiarne. C’è ancora molta frizione culturale in Italia a cogliere questi temi, apparentemente contro-intuitivi?
C’è qualcuno che, spesso strumentalmente, incita ad avere paura della tecnologia. Noi no. Forse perché abbiamo a che fare con quei temibili robot che oggi Bill Gates vorrebbe tassare fin dalla seconda metà degli anni Ottanta. Cosa facciamo? Tassiamo anche i bancomat? Le pompe di benzina? Torniamo all’aratro a trazione umana? Dovremmo dire a FCA di smontare i 16 robot della Butterfly che saldano in pochi secondi la carrozzeria di una Jeep Renegade a Melfi perché rimpiangiamo un ambiente di lavoro che faceva respirare le esalazioni della saldatura ai lavoratori? Oppure dobbiamo interrompere la sperimentazione nell’utilizzo di esoscheletri a Pomigliano per ridurre le criticità ergonomiche e il carico fisico del lavoro? Oppure vogliamo suggerire alla Foxconn in Cina di non puntare sui robot e tenere le sue “splendide” catene di montaggio, il cui lavoro è sorvegliato da uomini armati, con tanto di reti anti-suicido, fuori dalle finestre dei dormitori, una situazione che abbiamo visto con i nostri occhi a Shenzhen?
La vera novità è che l’innovazione tecnologica, se anche riduce sempre di più il numero di lavori non-sostituibili dalle macchine, ne creerà di nuovi, generando nuove professionalità; la vera sfida è saper gestire la transizione. Il grafico mostrato recentemente dal World Economic Forum indica che nel 2015 il costo orario di un robot ha uguagliato quello di una persona. Quindi, cosa facciamo? Tassiamo il robot, come propone Bill Gates, o il valore aggiunto del suo contributo, per rendere più conveniente l’utilizzo della persona? E non sarebbe invece più utile che i big della new economy pagassero, da qualche parte, le tasse? Il fatturato per dipendente di queste multinazionali è gigantesco ed è inversamente proporzionale al loro livello di tassazione effettiva. Sarebbe perciò più utile detassare il lavoro che tassare l’innovazione, anche perché quest’ultima non redistribuirebbe i maggiori profitti, ma metterebbe ancora più in ginocchio l’industria italiana, che ha bisogno come il pane di innovazione di processo e di prodotto. L’idea che si sta affermando, che avremo fabbriche come scatole vuote con molta produzione e pochi lavoratori, è una forzatura. Tutti i reshoring di produzioni, anche grazie agli accordi sindacali, sono stati realizzati con un’iniezione ulteriore di nuove tecnologie, formazione e nuova organizzazione del lavoro. In Italia, peraltro, la tassa sui robot graverebbe in modo inversamente proporzionale alla dimensione di impresa, già troppo piccola. La tassa non rallenterebbe la transizione, la precluderebbe invece definitivamente ai Paesi che dovessero immaginarla come un percorso verso una maggiore sostenibilità. Il nostro è un Paese che già di per sé si occupa solo del paracadute senza aver ancora imparato a volare. Il catastrofismo fa molti più danni del liberismo. Se l’innovazione si intende gestirla con i tre step dell’Italietta antagonista su tutto ciò che si muove – regolarla, ipertassarla e, appena morta, sussidiarla – noi non siamo d’accordo.
Il lavoro non finirà, ma cambierà, l’idea che si va facendo strada di società in cui lavorerà solo il 10% delle persone mentre il resto vivrà di un sussidio di cittadinanza non regge. Qualche settimana fa Papa Francesco ha voluto iniziare la sua visita a Genova partendo dall’Ilva di Cornigliano. In quella sede Francesco ha espresso parole forti e chiare sul tema del lavoro. Ha detto che “quando non si lavora, o si lavora male, si lavora poco o si lavora troppo, è la democrazia che entra in crisi, e tutto il patto sociale” su cui si fonda la nostra Repubblica. Aggiungendo efficacemente che “bisogna allora guardare senza paura, ma con responsabilità, alle trasformazioni tecnologiche dell’economia e della vita e non rassegnarsi all’ideologia che sta prendendo piede ovunque, che immagina un mondo dove solo metà o forse due terzi dei lavoratori lavoreranno, e gli altri saranno mantenuti da un assegno sociale. Dev’essere chiaro che l’obiettivo vero da raggiungere non è il ‘reddito per tutti’, ma il ‘lavoro per tutti’. Perché senza lavoro, senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti”.

Vi è una certa analogia tra le idee luddiste e quelle protezionistiche. Così come si suppone che i lavoratori stranieri “tolgano lavoro” a quelli nazionali, allo stesso modo si suppone che le macchine “tolgano lavoro” agli esseri umani. In entrambi i casi siamo davanti a filiere di produzione più efficienti rispetto al passato, quindi una maggiore efficienza che consente una maggiore produzione. Come uscire da questo fraintendimento?
Sono idee segnate dal populismo e dalla disinformazione. Purtroppo populismo e disinformazione stanno erodendo il tessuto della nostra democrazia. In questo quadro il sindacato non può stare a guardare, anzi ha il compito, come ho già detto, di tornare ad essere soggetto educatore. La tecnologia e i cambiamenti in atto aprono molte opportunità, ma per liberarci nel lavoro, non dal lavoro. Il cambiamento va affrontato e umanizzato, non combattuto. Di una cosa sono convinto: l’Europa, l’euro, la globalizzazione e la tecnologia hanno fatto meglio al lavoro, rispetto ai tanti soldi, anche pubblici, spesi male. Più in generale, sta crescendo un lavoro che non è autonomo né propriamente dipendente. Credo che il lavoro del futuro sarà sempre più un progetto, su questo dobbiamo riflettere senza tentazioni ideologiche.

I sindacati sorsero per difendere gli iscritti un’idea di giustizia sociale legata agli squilibri tra proprietà e i lavoratori che volevano trovare e mantenere un lavoro. Adesso pare si mobilitino solo quando il lavoratore o sta per perdere il lavoro, o lo ha già perduto. Sembrano essersi rassegnati a una difesa del posto di lavoro piuttosto che del lavoro. Si può tornare a orientare la funzione del sindacato verso l’innovazione e la rottura di rendite e monopoli?
Partiamo col dire che il sindacato nasce con la grande ambizione di promuovere giustizia sociale ed è stato un grande fattore di modernità, solidarietà ed emancipazione del nostro paese. Oggi viviamo un periodo straordinario, di grandi cambiamenti, cambiamenti che sfidano anche il sindacato. Credo che per essere all’altezza dei tempi abbiamo bisogno di tornare ad essere un grande soggetto di mediazione democratica, che argini l’ondata populista che ha sequestrato le coscienze di tanti lavoratori. Per farlo servono scelte radicali, rifondative e rigeneratrici.
In questi anni di crisi abbiamo salvato più di 100mila posti di lavoro solo nel settore metalmeccanico, attraverso soluzioni innovative sul piano contrattuale e dell’organizzazione del lavoro. Per questo siamo stati attaccati da una parte della stampa e da altre organizzazioni sindacali. Vale a dire, da chi preferisce la fabbrica chiusa all’assunzione di responsabilità. Abbiamo buona memoria e non dimentichiamo quando, per le nostre scelte coraggiose, ci siamo ritrovati con nostre sedi incendiate e con nostri dirigenti sotto scorta. A fare da detonatore è stato il caso Fiat, cioè il caso di un’azienda che nel 2004 era virtualmente fallita e che oggi, anche grazie ai nostri accordi, è tornata competitiva sul mercato. Ma quanti di quelli che hanno scritto di Fiat hanno letto i nostri accordi o visitato uno degli stabilimenti FCA, oggi tra i più moderni in Europa?
Il sindacato ha accumulato molti ritardi, politici e culturali, ma in questi anni di crisi – è bene ricordarlo a chi sostiene la necessità della disintermediazione – gli unici a stare vicini ai lavoratori e a difendere e presidiare alcuni importanti settori industriali siamo stati noi, come dimostrano le vertenze dell’Ast di Terni, dell’Ilva, di Fiat, di Whirlpool. La contrattazione può e deve recuperare questi ritardi che riguardano la produttività e le competenze per gestire la transizione verso la nuova manifattura.

Il lavoro non si crea per legge o decreto, ma con la crescita, generata dalle imprese. Il predominio dei contratti collettivi nazionali è un freno alla produttività del lavoro, alla flessibilità salariale e al dinamismo delle imprese?
Le politiche fatte negli ultimi anni sono state tutte indirizzate al mercato del lavoro, ma si è pensato troppo alla “flexi” e troppo poco alla “security”. La riforma Costituzionale poteva dare respiro ad una serie di riforme necessarie per il lavoro, specie sulle politiche attive, ma la vittoria del “no” ha riportato indietro le lancette: si vedano al riguardo le difficoltà dell’Anpal (l’Agenzia nazionale delle politiche attive del lavoro). Del resto, come dice giustamente Sabino Cassese, siamo un paese che ama perdere tempo. Lo dimostra il carattere assurdamente ideologico del dibattito pubblico sul lavoro. Prendiamo il caso dei voucher, uno strumento in sé buono, benché bisognoso di alcune modifiche, che è stato preso a pretesto dalla Cgil e da una parte del mondo politico per attaccare il governo. Oppure l’articolo 18, sul quale si è consumata un’altra durissima battaglia. L’articolo 18 è importante, ma mente sia chi dice che ha frenato la crescita del paese, sia chi dice che sia la soluzione al problema delle tutele nel mercato del lavoro. La verità è che nel 2014, su 100 nuovi lavoratori, solo 15 potevano beneficiare dei diritti garantiti dallo Statuto dei lavoratori, sconosciuti agli altri 85. I 600 mila posti persi in otto anni di crisi erano tutelati dall’articolo 18, ma ciò non ha fatto la differenza. Per non parlare dei tanti giovani sotto i 40 anni che si dividono tra sharing e gig economy. Come si vede, c’è un bisogno urgente di de-ideologizzare il dibattito sul lavoro.

@antonluca_cuoco