La Cavera: l’eredità scomoda di un eretico

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Mimì La Cavera non è più con noi perché ha lasciato questa terra il 22 febbraio del 2011 alla ragguardevole età di 95 anni dopo una vita spesa nel tentativo di rendere consapevole la sua Sicilia di quanto libera ricca e indipendente avrebbe potuto essere se solo l’avesse voluto. Se solo avesse avuto il coraggio di provarci come il suo illustre figlio non si stancava di esortare nei diversi ruoli che avrebbe ricoperto.

Ma il suo spirito dev’essere ancora presente nell’isola che lo ha generato ricusato e riamato se il gruppo dirigente della Confindustria locale ha voluto istituire un premio a suo nome – diretto alle imprese di successo del territorio – per onorarne la memoria e rinverdirne gli insegnamenti a beneficio soprattutto dei più giovani che non l’hanno conosciuto per ragioni anagrafiche e forse ne ignorano perfino l’esistenza.

Di razza liberale, questo siciliano atipico si era fatto la fama di eretico ed è questa specifica qualità più di ogni altra a renderlo simpatico a questa rubrica che a suo modo vorrà ricordarlo o mo’ di risarcimento per l’oblio mediatico al quale era stato consegnato una volta stabilito il suo stato di cittadino scomodo, al quale portare formale rispetto per la storia che rappresentava senza nulla concedere al suo pensiero.

Dispiace, molto, che tra i tanti che l’hanno avversato ci fosse anche un grand’uomo come don Luigi Sturzo che probabilmente non seppe o non volle andare fino in fondo alla conoscenza di quell’anima ribelle che in verità avversava le stesse sue bestie come la tentacolare presenza di uno Stato ingordo e cialtrone. Fatti per collaborare, i due personaggi si ritrovarono invece su sponde opposte e s’indebolirono a vicenda.

Ma che cosa predicava La Cavera, fondatore della Sicindustria del Dopoguerra, di così affascinante e pericoloso al tempo stesso? Perché le persone che entravano in contatto con lui si dividevano quasi subito tra adoratori e denigratori evitando poi di entrare nel merito delle sue proposte? Come fu che sollevato alle stelle fu poi precipitato nelle stalle accompagnato ad abbandonare per Roma la sua terra?

La risposta è semplice, nella sua complessità. Mimì, come lo chiamavano gli amici ed è in seguito diventato per tutti, poneva già negli anni Cinquanta la questione industriale al centro della sua attenzione e della sua azione e pretendeva che fosse ascoltato e capito dall’establishment dell’epoca, politico ed associativo, che invece indulgeva alla suggestione di un’esistenza meno impegnativa e più sicura.

Per essere davvero liberi, per diventare padroni della propria vita e dei propri sogni – diceva La Cavera – bisognava che la Sicilia fosse messa nelle condizioni di competere con le industrie del Nord invece che essere relegata nel ruolo di prestatore di braccia a beneficio dei grandi insediamenti di Milano e Torino secondo una divisione dei compiti nel Paese che non condivideva e dunque combatteva.

Piuttosto che adagiarsi sui vantaggi di un’autonomia appena conquistata e che sarebbe risultata vuota senza un’autentica capacità di creare ricchezza, quel tipetto dall’aspetto esile e dalla volontà di ferro voleva sedere da pari al tavolo nazionale che si andava componendo senza dover mendicare aiuti e provvidenze che avrebbero finito col corrompere il corpo e l’anima di un territorio baciato dalla fortuna.

Per riuscire nel suo intento si era alleato con diavolo in persona, allora identificato nel presidente dell’Eni Enrico Mattei, ed era finanche riuscito a persuadere il gran capo della Fiat, Vittorio Valletta, a investire nel luogo. Troppa intraprendenza, troppo dinamismo, per un’area sonnacchiosa che avrebbe preferito cavarsela all’ombra di una burocrazia che stava per diventare quel mostro che adesso è.

Un grande giornalista come Roberto Ciuni, che sarebbe diventato un inviato di punta del Corriere della Sera e poi direttore del Mattino, lo aveva preso in simpatia. E così pure un altro eccentrico come Andrea Camilleri con il quale non avrebbe mai perso i contatti grazie anche alla comune amicizia con l’allora giovanissimo Antonello Montante che oggi si può a ragione considerare il suo erede morale.